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Django Unchained, lo spaghetti western secondo Tarantino (RECENSIONE)

Se ne parla da più di un anno, d’altronde il regista dietro questo film è uno dei più amati e controversi cineasti del nostro tempo. Tarantino torna finalmente a stupirci e lo fa nel modo migliore, mettendo in scena del grande cinema.
A cura di Aureliano Verità
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Dopo “Grindhouse – A prova di morteQuentin Tarantino aveva iniziato a lavorare su un progetto di lunga data, "Bastardi Senza Gloria", al quale aveva iniziato a pensare nei sei anni di pausa tra “Jackie Brown” e “Kill Bill” e con il quale aveva letteralmente riscritto a suo modo la Seconda Guerra Mondiale. L’impianto di quest’ultimo film è simile, questa volta però al centro della storia ritroviamo la schiavitù, nel più profondo Sud degli Stati Uniti. L'idea di sviluppare “Django Unchained”, Tarantino l’aveva già annunciata nel 2007 al Daily Telegraph, e il risultato è uno tra i suoi capolavori più completi e meglio sviluppati in assoluto, uno spaghetti western in cui il regista è riuscito a calibrare un giusto mix tra il genere, già di per sé delineato e il gusto pulp che lo contraddistingue. Il film arriverà nelle sale il prossimo 17 gennaio e noi lo abbiamo visto e recensito in anteprima.

La trama

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Ambientato nel Sud degli Stati Uniti, a due anni dall’imminente scoppio della Guerra Civile, il film segue le vicende di Django, uno schiavo che per vie traverse si ritroverà faccia a faccia con il Dott. King Schultz, un cacciatore di taglie di origine tedesca, che vaga alla ricerca di super ricercati in veste di dentista. Schultz è sulle tracce dell’ennesimo delinquente sul quale capo pende una taglia da 7000 dollari e solo e unicamente Django potrà aiutarli, perché conosce il volto del ricercato. Con la promessa di restituirgli la libertà, una volta portata a termine la missione, Schultz riesce a convincere il protagonista e i due partono alla ricerca dei criminali più ricercati del Sud. Ben presto si scoprirà che il vero obbiettivo di Django è uno soltanto, salvare Broomhilda, la moglie da cui era stato separato, a causa della sua vendita come schiava. Sarà proprio grazie a questa congiuntura di eventi che i due entreranno in affari con Calvin Candie, un ricco proprietario terriero, ora “padrone” di Broomhilda, al quale i due tenteranno di sottrarla.

Il cast

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Tarantino aveva inizialmente pensato a Will Smith per il ruolo del protagonista ma per via della rinuncia dell’attore e passate al vaglio altre ipotesi la scelta è ricaduta sul premio Oscar Jamie Foxx che battendo la concorrenza è riuscito ad accaparrarsi la parte rendendola alla perfezione. Sempre nello stesso periodo anche Samuel L. Jackson e Christoph Waltz vennero confermati rispettivamente per il ruolo dello schiavo Stephen e del dott. King Schultz, confermando così la collaborazione tra l’attore tedesco scoperto da Tarantino e lanciato verso la carriera hollywodiana proprio grazie a “Bastardi Senza Gloria”. Ritroviamo un insolito Leonardo DiCaprio contattato per il ruolo del “villian” Calvin Candie, e Kerry Washington nel ruolo di Broomhilda, la moglie di Django che va a terminare il cast principale del film.

La nostra recensione

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Che Tarantino amasse il genere western, non era certamente un mistero. Aveva lui stesso dichiarato che Django, personaggio che aveva in mente da più di dieci anni, uno schiavo diventato cacciatore di taglie, sarebbe potuto essere sviluppato seguendo i canoni di questo genere. D’altronde una storia del genere andava a combaciare perfettamente con la struttura di un western, la netta contrapposizione tra bene e male, tra personaggio positivo e il villain per eccezione sostenuta anche da un contesto storico che di gran lunga supera la messa in scena del film. Profondo Sud degli Stati Uniti, mancano solo due anni alla Guerra Civile è lo scenario perfetto per fan nascere uno spaghetti western. Tanti sono i riferimenti, moltissime le citazioni, da Sergio Leone, Tarantino ruba lo sguardo, quelle inquadrature strette alla “Per un pugno di dollari” che hanno saputo immortalare un genere e uno stile in maniera indelebile nell’immaginario cinematografico. Non bisogna tra l’altro dimenticare che questa nona fatica del regista americano è un omaggio all’omonima pellicola di Sergio Corbucci, datata 1966 con protagonista un giovanissimo Franco Nero che ritroviamo in ottima forma in un cameo studiato ad arte nel film di Tarantino. Si nota chiaramente lo studio approfondito che il cineasta ha portato avanti per anni, arrivando a mescolare una narrativa trita e ritrita come quella sullo schiavismo americano insieme a un genere particolare come lo spaghetti western, il tutto accostato a un occhio già di per sé inconfondibile come il suo, contribuendo a creare un qualcosa di inedito e dannatamente accattivante. Un film del genere lascia il segno, sradica i canoni della routine cinematografica alla quale ci siamo abituati negli ultimi anni, ne stravolge le regole e questa volta non esclusivamente ai fini del mero intrattenimento. Tarantino in questo caso si ferma a riflettere, riscopre una morale che a modo suo fa arrivare chiaramente allo spettatore, disturbandolo, come è solito fare. Dirige un cast perfetto per questa pellicola, ogni attore, dai protagonisti ai ruoli secondari è congeniale al fine ultimo del lungometraggio, che intrattiene, spaventa, si rende rivoltante e allo stesso tempo poetica. Nulla è lasciato al caso, ogni inquadratura è congeniale e per quanto la durata sia di ben 165 minuti (è suo il film più lungo) queste tre ore volano, lasciando allo spettatore un regalo non indifferente, chiamato cinema.

Voto complessivo: 9

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