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Il festival di Venezia l’ha sancito: il cinema italiano è criminale

Con ben 5 film italiani centrati sul crimine (di cui 2 documentari sulla mafia) la 71esima edizione del Festival di Venezia ha sancito che la maniera in cui l’Italia racconta se stessa oggi è attraverso il contrasto tra legale e illegale.
A cura di Gabriele Niola
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É stato un festival degno del suo ruolo questa 71esima edizione di Venezia, la terza diretta da Barbera. Ha dato una linea, sancito dei mutamenti e dimostrato qualcosa. Insomma chi è venuto a Venezia quest’anno o chi lo ha seguito per bene da casa (oltre a news, interviste e aggiornamenti ben 10 film di Orizzonti potevano essere visti in streaming legale in contemporanea alle proiezioni del Lido, un’altra novità della gestione Barbera) ha capito qualcosa di più e di nuovo sul cinema. Soprattutto sul cinema italiano.

Cinque tra i film più importanti portati al festival infatti avevano al centro delle loro storie la criminalità, 3 di finzione (Senza nessuna pietà, Perez. e Anime nere) e 2 documentari (Belluscone e La Trattativa). Di gran lunga la malavita, sia vera che finta, è sia ciò che mettiamo in scena di più in questo momento, sia la chiave di lettura attraverso la quale il cinema italiano racconta l’Italia. Perchè se è vero che si tratta di un movimento più grande di questa edizione della Mostra di Venezia (è iniziato più o meno nel 2005 con Romanzo Criminale di Placido ed è andato crescendo da quel momento, tra ricostruzioni degli anni di piombo, cinema d’autore e serie televisive) è anche obiettivo come una simile presenza massiccia nella principale manifestazione culturale italiana è un segnale chiaro.

Il crimine nel cinema italiano c’è sempre stato, quel che cambia è la maniera con cui lo stiamo rappresentando: con una crudezza maggiore, un realismo maggiore e quindi un interesse del pubblico maggiore. Non è un crimine edulcorato o fuori dal tempo ma uno molto moderno e duro, senza compromessi e per questo pieno di senso, sono film e serie in cui il bene non si vede (anche nei documentari) e il mondo ci appare più nero che mai. Le storie di crimine italiane (che poi spesso sono storie di mafia) stanno diventando la parte migliore della nostra produzione, per quantità e qualità grazie ad un aumento di pubblico che spinge i produttori a maggiori investimenti. Ma quel che si capisce dai film visti a Venezia è che sono anche la maniera in cui il cinema mette in scena il paese e la modernità.

Le storie che abbiamo visto qui a Venezia trattano di una famiglia mafiosa calabrese in cui ogni fratello rappresenta una maniera di vivere il presente (Anime nere), di un pesce piccolo di un grosso clan che vede distrutte le regole in cui credeva e decide di alzare la testa per orgoglio (Senza nessuna pietà) e di un uomo che cerca di fare il suo dovere nonostante le pressioni criminali (Perez.), mentre i documentari hanno raccontato in maniere diverse il rapporto del paese con lo stato, la sfiducia in cui prospera la mentalità mafiosa e i compromessi che dobbiamo subire. Si tratta insomma di storie che non si fermano alla rappresentazione del crimine per intrattenere ma che lo usano per mettere in scena gli italiani (anche quelli onesti).

Dopo anni in cui i processi, la violazione delle regole, i dibattiti sulla legalità e una crescente scoperta di attività mafiose radicate in luoghi in cui non avremmo sospettato sono stati all’ordine del giorno, il cinema comincia a reagire e prendere atto che non c’è nulla di più attuale, pervasivo e significativo del contrasto tra legale e illegale, tra società civile e mafia. La 71esima Mostra del cinema di Venezia ha sancito e messo in evidenza tutto questo con una forza che ha costretto tutti a prenderne atto, ha puntato il dito su una tendenza determinante segnando un punto fermo nella storia del nostro cinema. Tra diversi anni ricorderemo questo periodo come quello in cui al cinema e nella televisione italiana fiorivano i polizieschi in cui quelle erano le storie che volevamo sentirci raccontare perchè avevano un senso nelle nostre vite.

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