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“L’intrepido” di Amelio: armi poco affilate per raccontare l’Italia di oggi

Secondo italiano in concorso Gianni Amelio con “L’intrepido”, parabola sull’Italia del precariato con un ottimo Albanese, ma che non riesce ad arrivare al cuore del problema.
A cura di Daniela Scotto
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La Milano del lavoro, delle opportunità per tutti, delle famiglie del Sud che dopo tanti anni ancora conservano il loro accento inconfondibile. Ma i tempi sono cambiati, le opportunità sono diventate espedienti, svanita la possibilità di “sistemarsi” si ritorna alla cara vecchia arte d’arrangiarsi. “L’intrepido” di Gianni Amelio, secondo film italiano in concorso, è la storia di Antonio Pane, un eroe solitario (come recita il bel titolo in inglese), un’idiota in senso dostoevskiano che attraversa l’Italia del lavoro, quindi quella della precarietà e dell’incertezza ad vitam, con sguardo innocente, di volta in volta raggelato dai mezzucci e dagli inaccettabili compromessi che il suo status di “rimpiazzo” richiederebbe.

Antonio infatti cerca di dare un senso ai suoi risvegli sostituendo nelle pause e nei giorni di permesso di altri lavoratori. Questo permette a lui e allo spettatore un attraversamento nella miriade di lavori manuali possibili inizialmente molto interessante, una sorta di parabola moderna sulle possibilità di chi sceglie di darsi da fare ad ogni costo pur di andare avanti. Il lavoro da rimpiazzo dimostra anche il desiderio negato di Antonio di sentirsi realmente parte di una qualche dimensione lavorativa, che si traduce in quel senso di estraneità verso i contesti che ogni precario conosce bene. Ma pian piano, il suo cuore ingenuo si scontra con l’Italia del nero, con l’Italia dei concorsi truffa, il bel paese dei cantieri insicuri e degli sfruttatori.

Da quando subentra il confronto generazionale con il figlio, musicista in cerca di definizione, e con Lucia, altra ventenne depressa e (chiaramente solo all’apparenza) senza un soldo, il film si perde in dialoghi banali, dai toni forzati, fino a giungere ad un lungo e stiracchiato finale. Doveva essere un tentativo di cimentarsi con i temi più scottanti dell’attualità italiana: il precariato, i giovani senza futuro, le piaghe del lavoro irregolare e di chi sulla sua base costruisce il proprio piccolo impero.

Delude che proprio Gianni Amelio, vincitore dell’ultimo Leone d’Oro italiano nel ’98 con “Così ridevano”, non sia riuscito nell’intento. Per l’ennesima volta non si è riusciti a trovare una chiave, il pur ottimo spunto iniziale non si sviluppa col necessario fervore perché, in fondo, esiste sì un’urgenza di sviscerare la problematica, ma evidentemente, non è ancora tale in Italia da ispirare la poetica giusta per farlo.

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