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“Miss violence”, recensione del film shock in concorso a Venezia

Una brutale storia di violenza familiare scandalizza Venezia. Il film greco mette alla prova il pubblico con freddo rigore e una lenta e imperturbabile scansione narrativa.
A cura di Luca Iavarone
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Lo sguardo fisso in camera, il sorriso impavido e spavaldo del compiacimento, un salto nel vuoto. È il suicidio di Angeliki che, senza scampo, a 11 anni prova l'ultima ebbrezza: deludere i suoi aguzzini, disattendere ogni loro meschina aspettativa e, più che liberarsi, scompaginare i piani, già pronti per lei, della violenza domestica. Siamo in Grecia, in regime d'austerity, ma potremmo essere in Francia o in Italia, perché l'infanzia violata senza voce, senza leggi né tutele, non ha giustificazione economica che tenga, e non ha classe né nazione.

Fa scandalo a Venezia il film di Alexandros Avranas, ma non sono i dettagli espliciti (molto pochi in verità) a sconcertare; è il ritmo ostinatamente lento, la fotografia algida e la recitazione, soprattutto, mai presente fino in fondo, come se, prima della verità, ci fosse sempre un cuscinetto, un piccolo vuoto di senso da colmare, un distacco necessario, che non si racconta perché non si può rappresentare. Per una buona metà del film tanti dettagli non sembrano quadrare: i rapporti di parentela si intuiscono a malapena, i momenti di piacevole riunione insospettiscono e non sono piacevolmente rassicuranti nemmeno le buone notizie che scandiscono la quotidianità del nucleo familiare.

La storia sembra, da principio, seguire l'elaborazione del lutto del pater familias, che si rivelerà essere il nonno della piccola Angeliki, intento nel tenere ben salde le redini del rigore e della disciplina domestica, ma ben presto svicola, indugiando parimente su ogni membro: dalla ribelle Myrto, alla ragazza madre Eleni, fino a suo figlio Filippos, alla madre di lei e alla piccola Alkmini. Ogni storia è connessa alle altre e ogni personaggio nasconde una indecifrabile ferita, maturata, è evidente, tra le mura dell'appartamento ma silenziosamente oscura.

Quando la violenza fa il suo ingresso nel film, o meglio, quando il regista decide di dischiudercene le porte, mettendoci in condizione di vedere e di sapere ciò che ognuno segretamente vive e sa sugli altri familiari (e che non può rivelare anche se «non c'è niente da nascondere»), con il passo di un predatore a caccia, la tensione inesorabilmente cresce e le scene diventano crude, spietate e quasi insostenibili, o quantomeno la loro nuova rilettura consapevole le ridipinge così. Ma ancora, non è tanto il carico di brutalità che sconcerta, è piuttosto l'insistere su una scansione misurata, che non viene turbata dalle rivelazioni, che costringe lo spettatore nella stessa immobilità inerme nella quale sono calati i personaggi.

"Miss violence", da qui in poi percorre un cammino deciso e immutabile, corente nonostante i pochi sviluppi e il finale alquanto prevedibile: la catarsi, nonostante gli sforzi, è incompiuta, anche per il pubblico in sala. Richiusa a chiave la porta, il sacrificio finale, benché sembri una svolta positiva, non basterà a cambiare la consuetudine del silenzio e, probabilmente, della violenza.

Un film potente, rigoroso e scioccante, basato su storie vere raccolte dal regista stesso in lunghe ricerche; non convincente fino in fondo, ma soddisfacente.

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