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Niente di nuovo a Parigi, la sorpresa di Venezia 70 viene da Algeri

Ultima giornata di concorso, con “La Jalousie” di Philippe Garrel, storie di tormenti amorosi à la parisienne ed il bellissimo “Le terrazze” dell’algerino Allouache.
A cura di Daniela Scotto
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Il Concorso, si sa, è la sezione più generosa, che cerca di accogliere il maggior numero di registi da tutto il mondo. Che siano maestri conclamati o giovani promesse, il risultato è un film per ogni gusto, da quello squisitamente festivaliero a quello allegramente più spendibile a kermesse finita. E quindi, dobbiamo tollerare che ci sia ancora qualcuno che trova interessante il triangolo – quadrilatero amoroso francese, in cui lei lascia lui senza pietà e lui si ammazza tra una replica e l’altra del suo spettacolo teatrale, sebbene incline pure lui al tradimento, e che di mezzo ovviamente ci sia una bambina totalmente indifferente, se non addirittura complice, verso i guai amorosi che combina il padre (tanto è francese, è stata tirata su col metodo maman).

I personaggi, insoddisfatti, narcisi ed egoisti, tanto per precisare. I 77 minuti di “La Jalousie” di Philippe Garrel trascorrono come se fossero tre ore, nell’inutilità assoluta di veder riproposti ancora ed ancora questo tipo di clichè senza un minimo di autoironia, ma come detto sopra, c’è a chi piace, ed il guaio è che potrebbe piacere anche a Bertolucci, che avverte la sensibilità del regista francese prossima alla sua, sebbene tra questo film e un titolo come “The Dreamers” intercorrano anni luce di fascino e di narrazione.

La vera sorpresa di questa ultima giornata di concorso a Venezia 70 è il bellissimo “Es stouh” (Le Terrazze), del regista algerino Merzak Allouache, cinque storie per raccontare l’Algeria di oggi, paese non coinvolto recentemente nelle cronache mediorientali, tra guerre civili ed illusioni di primavere, ma che di certo non rappresenta un isolato idillio. Condomini popolati da squatter, famiglie perbene in cui un vecchio zio è rinchiuso in una gabbia come se fosse un cane rabbioso, in cui le donne vengono pestate dagli uomini davanti agli occhi indifferenti dei vicini (“potrebbe essere il fratello o il marito”, si dicono i ragazzi che assistono alla violenza, come se ciò bastasse a giustificarla), in una narrazione alternata che riesce a non spezzare la tensione.

La quotidianità della violenza e dell’intolleranza avviene alla luce del sole, su quelle terrazze diventate metri quadri preziosi di spazio vitale fondamentali per sopravvivere tra i condomini decrepiti di una città iperaffollata. Un pubblico privato, emblema della condizione sociale ed esistenziale dei conflitti che imperversano nella capitale algerina, il cui tempo è scandito dalle cinque preghiere intonate dai muezzin risuonanti nelle varie moschee sparse nella città, dalla prima, quando il sole non è ancora sorto, al tramonto. Le terrazze affacciano sulla splendida baia, emblema di una bellezza spazzata via dal disagio urbano e culturale. Una fotografia nitida e spiazzante di quelle realtà che impari a conoscere, spesso, soltanto grazie al cinema, che non può non lasciare un segno nello spettatore, di più e meglio di molti altri film visti in competizione.

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