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Opinioni

C’era una volta… Quentin Tarantino

C’era una volta a… Hollywood è l’apice delle passioni che Tarantino ha sempre raccontato, il cinema di serie B e il godimento di vedere un film scritto bene. Il 1969 è l’epoca in cui vorrebbe vivere e la ricostruisce con una perizia e un amore commoventi, con Brad Pitt e Leonardo DiCaprio sullo sfondo di una tenera amicizia. Al sangue e alla miseria umana, stavolta, si fanno largo i buoni sentimenti e la voglia di raccontare.
A cura di Gabriele Niola
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Chi lo poteva immaginare che Quentin Tarantino un giorno sarebbe cambiato. Certo non cambiato così tanto da essere irriconoscibile, non cambiato nei suoi gusti fondamentali (il cinema di serie B, i piedi delle attrici, il cibo, i cocktail, i personaggi smargiassi e i dialoghi affilati), ma cambiato nel tipo di film che vuole scrivere e girare. C’era una volta a… Hollywood non è il massacro già scritto che si poteva immaginare, non è un film di grande violenza come lo sono stati Pulp Fiction, Kill Bill o Bastardi senza gloria. È invece un film dolce e tenero, realizzato come un grande sogno o una grande favola, denso di dialoghi e voglioso di ammirare la Hollywood del 1969 attraverso gli occhi di Brad Pitt e Leonardo Di Caprio.

Sia chiaro che il sangue e la violenza ci saranno, ma occupano pochissimi minuti di quella che è una grande cavalcata nell’epoca d’oro della produzione culturale di serie B. Come se passasse in rassegna le passioni che non ha mai nascosto. Chi l’ha mai sentito parlare di Xena – La principessa guerriera (qui il video) riconoscerà quella passione per prodotti bassi nel discorso che Rick Dalton (DiCaprio, ndr) fa quando racconta di un libraccio western che sta leggendo e lo stesso vale per le serie tv d’azione che vede la sera nella sua villa o i western di poco conto che gira.

I marchi Brad e Leo

Su tutto regnano Brad Pitt e Leonardo DiCaprio, il primo controfigura del secondo e suo tuttofare domestico, nonché autista. Si sono conosciuti sul set ma sono amici davvero e si aiutano nel trovare lavori e far decollare la carriera di DiCaprio, bloccata in pessime produzioni senza possibili sbocchi seri. Glielo fa capire Al Pacino, un produttore, all’inizio in un dialogo di puro Tarantino: interpreta sempre il cattivo che le prende e alla fine la gente questo penserà, che lui è uno che le prende. Dramma. Passiamo due giornate sui set con loro e con molti altri attori noti in piccole parti (si nota in particolare Luke Perry, che interpreta un padre di figlia rapita in un filmaccio western che gira il protagonista), vediamo proprio come si facevano i film all’epoca, il lavoro di tutti e in primis il loro. Memorizzare le battute, vestirsi nella maniera giusta, centrare una scena e poi tornare di corsa a casa la sera a vedere la tv.

La trama è questa. Il nuovo Tarantino non ha più un grande intreccio, era così anche Hateful Eight del resto: molti dialoghi, pochissima storia propriamente detta. Il nuovo Tarantino vuole raccontare la vita delle persone, i momenti che non contano molto ma dicono tanto tramite i dettagli. Grazie alla sua ironia, alle battute e al fascino dei due protagonisti non c’è un secondo di noia. Anzi. Imparare a conoscerli piano piano è fantastico, c’è tutto il gusto che prova Tarantino stesso per quel tipo di figure e che è così bravo a comunicare quando ci fa innamorare di mr. Wolf, del colonnello nazista Hans Landa o dei molti altri personaggi affascinanti dei suoi film. Presa da un’altra trama, lontana da loro, c’è Sharon Tate, cioè Margot Robbie, bellissima e in ascesa, simbolo del cinema di serie A curiosamente residente nella villa accanto a quella dell’attore di DiCaprio, che sogna di lavorare con lei e suo marito Roman Polanski.

Charles Manson e i fatti di sangue del 1969

Non è una novità ma è stato più volte annunciato che il film ha a che vedere con Charles Manson, la sua famiglia e i fatti dell’Agosto del ‘69, quando massacrarono proprio Sharon Tate nella sua villa. L’idillio di quel luogo fantastico che è la Hollywood del ‘69 è contaminato dalla presenza della famiglia. A loro è dedicata una scena fantastica di pura suspense al centro del film, un pezzo di bravura, di scrittura e di regia memorabile che coinvolge Brad Pitt, silenzioso e bravissimo. Ma soprattutto alla famiglia Manson spetta il riflettore nel grande finale che non riveliamo. Lì sta tutto il senso del film, la metafora del rapporto che Tarantino vuole far vedere esistere tra cinema di serie B (rappresentato, come detto, dall’attore e dal suo stuntman) e cinema di serie A (rappresentato da Roman Polanski e Sharon Tate).

Ci si può legittimamente chiedere se questa grande goduria di Tarantino per un’epoca che ricostruisce maniacalmente (lui aveva 8 anni nel 1969), non sia solo masturbazione. Il pericolo è scampato, perché la sua bravura sta nel farci capire e apprezzare perché ne sia così innamorato, cosa ci sia di fantastico e commovente. Soprattutto è scampato dalla tenerissima amicizia tra l’attore in cerca di gloria, che finirà in Italia a fare spaghetti western e poliziotteschi dai titoli esilaranti per trovare una carriera migliore e la sua controfigura. Non se lo dicono mai, ma come si guardano come si parlano e come si aiutano è narrato con una tenerezza che, nonostante la sua natura ‘pulp', appartiene da sempre alle armi del cinema di Tarantino.

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