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Emma Dante e John Curran: al via il concorso di Venezia 70

La recensione delle prime due pellicole in concorso: “Via Castellana Bandiera” di Emma Dante, con Alba Rohrwacher e “Tracks” di John Curran, con Mia Wasikowska.
A cura di Daniela Scotto
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“Ho sempre desiderato fare un western” svela Emma Dante nella conferenza stampa che segue la proiezione di “Via Castellana Bandiera”, primo film in concorso a Venezia 70 ma soprattutto, esordio alla regia cinematografica di un’autrice che ha regalato tanto alla scena teatrale italiana contemporanea. E quindi l’etichetta che hanno assegnato alla sua opera prima, quella di “western al femminile” per l’appunto, non può che averle fatto piacere.

Il talento creativo della regista palermitana viene riconfermato dalle scene al grande schermo: non è banale che una personalità teatrale riesca ad avere un pensiero cinematografico compiuto che non imita né ripropone stilemi o temi dei suoi spettacoli. “Via Castellana Bandiera” è l’adattamento del suo primo romanzo edito da Rizzoli nel 2009, l’autrice ha scelto di tradurlo sullo schermo, a quanto ci racconta, perché aveva bisogno “della polvere, della strada, della carne”. Un altro risultato insperato ottenuto dal film è la non-rappresentazione della Sicilia, quella Sicilia vernacolare che proprio in una situazione da festival fa sfoggio di sé oscillando tra l’affresco manierista o la farsa terzomondista. Ovviamente Palermo c’è, ma è uno sfondo come un altro in cui si consuma una bizzarra, ma non così tanto, vicenda di ordinaria disumanità. Allo stesso modo, l’amore che lega Rosa, la protagonista interpretata dalla Dante, e Clara (Alba Rohrwacher) non è un amore omosessuale da trattare in questa o quella maniera, ma semplicemente un amore che ha un momento di crisi e poi di ritrovamento come qualsiasi altro.

Il confitto tra Rosa e Samira, personaggio tutto sostenuto dagli straordinari sguardi di Elena Cotta, può avere diverse letture ma nessuna obbligatoria: un confronto generazionale, una battaglia tra immagini riflesse, uno scontro tra origini differenti (Samira è albanese). La personalità dell’autrice né la sua importante carriera non invadono la storia, che in definitiva ha uno spunto originale, che si estende purtroppo anche oltre il dovuto, con qualche cedimento di ritmo a svantaggio di una confezione altrimenti interessante.

Ancora una donna protagonista nel secondo film in concorso del giorno, Robyn Davidson, la tracker australiana interpretata da Mia Wasikowska in “Tracks”, di John Curran, l’incredibile storia vera di una ragazza che attraversa il deserto australiano, percorrendo a piedi 3000 km insieme alla sua cagnetta e ai suoi quattro cammelli. Perché mai una ragazza sceglie, nel 1975, di rischiare la vita in un’impresa ai limiti dell’umano? Semplicemente, per esprimere un dissenso. Per non essere obbligata ad essere d’accordo, ad essere felice, a essere parte di un processo culturale con il quale si è in contrasto. Come nel suo film più prossimo, “Into the wild” di Sean Penn, Robyn ricerca la solitudine assoluta, intollerante a qualsiasi interferenza affettiva, al fine di compiere un’impresa fine a se stessa senza dubbio, ma proprio per questo necessaria e definitiva.

Echi malickiani inevitabili viste le straordinarie location, ma la regia di Curran è classica, pulita, ispirata alle fotografie originali che furono pubblicate dal National Geographic, “sponsor” del viaggio. La riflessione sulla necessità della solitudine è resa ancora più interessante se messa in contrasto con l’eccesso di condivisione e connessione (discorso worldwide, che però esclude il wifi del Lido, sia ben chiaro) in cui siamo immersi nella nostra epoca: probabilmente, iniziare un cammino simile adesso risulterebbe ancora più bizzarro. E sicuramente, ancora più doveroso.

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