Giuseppe Ferrara: quando il cinema diventa public history
Giuseppe Tornatore e don Luigi Ciotti sono stati a rendere omaggio al feretro di Giuseppe Ferrara esposto in Campidoglio. I due nomi insieme rappresentano la sintesi della sua carriera: cinema e impegno civile. La filmografia del regista di origine toscana copre un arco temporale che va dalla fine degli anni Sessanta agli inizi del Duemila. Eppure arriva tardi ai film per il pubblico delle sale cinematografiche. Nella prima parte della sua carriera è un documentarista e tale rimarrà lo sguardo anche quando girerà lungometraggi di finzione.
Il suo modo di narrare è influenzato dalla realtà circostante, soprattutto se questa realtà ti costringe a fare i conti con i valori della libertà e della democrazia messi in discussione da eventi tragici che hanno lacerato la carne viva della nazione con lutti difficile da elaborare. Quasi una necessità urgente di non far calare il silenzio dell’oblio su fatti e personaggi che hanno segnato la storia d’Italia. Si specializza, così, nei docufilm di impegno civile, genere che deve la sua apparizione in Italia al “Salvatore Giuliano” di Francesco Rosi.
Scorrendo i titoli dei film si nota immediatamente la tensione che lo spinge ad occuparsi di mafia, terrorismo, stragismo, narcotraffico e trame occulte. Il primo lavoro, “Il sasso in bocca”, tratto da un libro di Michele Pantaleone, parte dalla simbologia e dai rituali della vendetta mafiosa (il sasso in bocca, l’incaprettamento, l’estirpazione degli occhi, l’ingoio dei genitali ecc.) per giungere a realizzare una panoramica sull’organizzazione criminale e il suo sviluppo storico tra Sicilia e Stati Uniti, avendo come sfondo il mistero della morte di Mattei.
Poi sarà la volta di “Faccia di spia” con una carrellata di immagini documentarie sull’omicidio dei fratelli Kennedy, sulla fine di Che Guevara, sul colpo di stato del generale Pinochet e la morte di Salvator Allende, fino ad arrivare in Italia con episodi come il “suicidio” di Feltrinelli e il caso dell’anarchico Valpreda. Raggiunge la piena maturità artistica con le opere cinematografiche del biennio 1984-1986 occupandosi dell’omicidio del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, “Cento giorni a Palermo” (girato ad un anno dalla morte del generale, con uno splendido Lino Ventura nella parte del protagonista), e del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro, ne “Il caso Moro”, con un Gian Maria Volonté che sembra la reincarnazione dello statista pugliese.
Con “Cento giorni a Palermo” nasce l’ "instant movie” che fissa il dramma di un passato recentissimo da non dimenticare. La logica è quella della Public History, ovvero il film è congeniato come un processo di comunicazione degli eventi che dalla cronaca ascende al meccanismo di dominio pubblico della storia, con l’obbiettivo di facilitare il libero accesso e il coinvolgimento dell’audience nella divulgazione degli accadimenti memorabili dell’età repubblicana. Il cinema di Ferrara si propone volontariamente come agente di storia che dibatte i problemi dell’oggi nell’arena dell’immaginario collettivo, con l’aspirazione di trasportare la conoscenza storica ad un vasto pubblico di non addetti ai lavori, usando il medium cinematografico come narratore della memoria nazionale. La trama, perciò, assume il valore della testimonianza, ricostruita con il sistema dell’inchiesta, che entra nel dettaglio delle identità personali e collettive, cogliendo il divenire storico del cotesto e della mentalità di una comunità.
Istant movie è anche il film “Giovanni Falcone”, anche questo girato nell’immediatezza della tragedia di Capaci e via D’Amelio. L'obiettivo principale del film, infatti, è il racconto verosimile dei retroscena e delle vicende che nel decennio 1981/1992 hanno determinato la vita di alcuni servitori dello Stato, stritolati dai tentacoli della piovra. Il film documentario è una specie di report sulla storia della Sicilia di quegli anni, attraverso una puntuale e dettagliata messa in scena degli aspetti che erano rimasti sconosciuti al grande pubblico. La progressione concatenata dei fatti, che s’innesta nella memoria ancora viva del trauma provocato dalle stragi, agisce sugli spettatori come fattore d’immedesimazione: sullo schermo si ha l'impressione di rivedere non i personaggi interpretati da Placido, Giannini e Bonetti, ma i veri protagonisti della vicenda nella loro interezza umana.
Nonostante la pretesa documentaristica, il regista non rimane neutrale. Ricomponendo l’impegno professionale del giudice siciliano, Ferrara sottolinea con forza l’esistenza del cosiddetto terzo livello, cioè la piena complicità e collusione di settori dello Stato con Cosa nostra che ha impedito agli organi giudiziari di portare a fondo la lotta contro la cupola mafiosa. Il personaggio (probabilmente immaginario), ‘u dutturi, che si aggira nel palazzo di giustizia palermitano, considerato dagli uomini del pool una talpa (Falcone lo ritroverà anche a Roma), e che appare nei momenti cruciali e più tragici (sua è l’ultima frase del film sul luogo dell’assassinio di Borsellino), incarna simbolicamente l’infiltrazione mafiosa nel cuore delle Stato.
Dentro questa dinamica si compone la consapevolezza storica e psicologica del protagonista che sceglie di non avere figli per non lasciare orfani. Una consapevolezza rimarcata da un profondo senso di solitudine che ossessiona Falcone con il presentimento della fine, rappresentato dalla reiterazione della partita a scacchi tra il cavaliere e la morte, tratta da “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman.
Chiariamo non si tratta di un capolavoro. La necessità di rispettare la linea temporale dei fatti, che corrono inesorabili verso la duplice deflagrazione, appiattisce la sceneggiatura sulla logica del cronotopo, svuotando i personaggi del necessario spessore psicologico, anche se le scene del dialogo con Buscetta e della convivenza con l’ossessione della morte sono sicuramente un pezzo significativo della storia del cinema d’impegno civile. Il valore del film risiede tutto nella volontà/capacità di tramandare, mentre il sangue sta ancora scorrendo, la memoria di Falcone e Borsellino ad un pubblico militante; un pubblico che, da lì a breve, si ritroverà sotto le bandiere delle associazioni del movimento antimafia, divenuto, sull’onda congiunta dell’indignazione morale e del collasso del sistema dei partiti, l’argine ultimo a difesa delle libertà costituzionali.
Del resto dopo le morti di Falcone e Borsellino l’Eurispes, nel rapporto 1993, scriverà: «gli attentati di Capaci e di via D’Amelio segnano la fine di un’epoca ricordandoci come, per ironia della storia, ogni grande processo di cambiamento sia scandito da eventi luttuosi. La prima Repubblica muore con i funerali di Falcone e Borsellino… ». L’opera di Giuseppe Ferrara ci proietta nel vortice delle origini della seconda Repubblica svelando, anche a chi finge di non vedere, il nesso diretto tra potere mafioso e crisi della democrazia.