“Gravity”: l’universo con gli occhi di George Clooney e Sandra Bullock
Un inizio travolgente, emozionale, fisico: “Gravity” di Alfonso Cuaron è uno dei film d’apertura della Mostra del Cinema di Venezia più esplosivi delle ultime edizioni. Un film che coinvolge lo spettatore nello spaventoso fluttuare dei suoi due protagonisti, George Clooney e Sandra Bullock, astronauti coinvolti in una missione spaziale che avrà esito tragico, a causa di un evento imprevisto.
Alfonso Cuaron torna a Venezia dopo l’apocalittico “The Children of Men” (2006) con un film più maturo, vero e proprio esempio di tecnica capace di elevare la Settima Arte ad opera d’arte visuale che si presenta agli occhi del pubblico come un’esperienza sensoriale completa. A fare da scenario, la meraviglia dell’Universo nella sua spaventosa prossimità, percorso con immensa fascinazione da chi non tenta eroicamente di dominarlo, ma di avvicinarvisi e di lasciarsi permeare da esso. Il vero protagonista è l’essere umano, il cui corpo è riscoperto come potenza della natura, così come l’intelletto è un ritrovato strumento volto a gestire l’istinto di sopravvivenza. Da qui la scelta dell’attrice protagonista, una scultorea Sandra Bullock, finalmente affrancata dai soliti ruoli da commedia romantica a cui è stata per troppo tempo relegata a causa delle invischianti dinamiche hollywoodiane.
“Gravity” è essenzialmente questo: una riflessione sul senso della vita e sull’elaborazione dei dolori più sconvolgenti, che combina l’assoluta semplicità della concatenazione di eventi imprevedibili del plot alla grandiosità visiva sulla quale Cuaron ha investito questi lunghi anni di ricerca. Oltre ad una tensione costante ed un ritmo da cardiopalma, quello che colpisce di più nella sceneggiatura scritta insieme al fratello Jonas, è la modernità da un punto di vista narrativo del personaggio di dr. Stone. Il pericolo di raccontare un’ennesima donna in carriera in competizione con il maschio o peggio ancora, di una donna distrutta che tenta di ritrovare se stessa o altre banalità simili, era dietro l’angolo. Ryan Stone ha invece una caratterizzazione contemporanea che si rende universale nella descrizione di un percorso, quello più atroce, di accettazione dell’inaccettabile. E lo fa con una forza che nasce unicamente dalla scomposizione razionale delle difficoltà, anche quando si tratta di staccare quella sorta di cordone ombelicale che la teneva legata alla sua unica sicurezza, l’astronauta più esperto Matt Kowalsky.
Come ci racconta l’attore in conferenza stampa, l’ironia di Clooney è servita drammaturgicamente ad alleggerire i dialoghi tecnici tra gli astronauti e Houston, sebbene in effetti si abbia la sensazione che l’attore interpreti sempre lo stesso ruolo che è, sostanzialmente, quello di se stesso, come riconfermato dall’ennesima esibizione da “mattatore” della kermesse lidense. Un umorismo funzionale e non straniante che, paradossalmente, ci riporta ad una maggiore verisimiglianza di una possibile conversazione messa in atto per rompere una tensione gravissima. Perché “Gravity”, nella sua grandeur visiva resta principalmente un film sull’essere umano, teso tra l’esistere e l’essere, tra l’astrazione della solitudine moderna alla concretezza del corpo e della terra alla quale fa ritorno, “comunque vada, senza colpa di nessuno”.