Le città invisibili ai bordi del raccordo in “Sacro Gra” di Gianfranco Rosi
A bordo del suo minivan, il regista Gianfranco Rosi, che proprio alla Mostra di Venezia si fece notare con il suo bel documentario “Below Sea Level”, ha percorso per tre anni il Grande Raccordo Anulare di Roma, l’anello autostradale di 21 chilometri e 31 uscite più grande del Paese. “Sacro Gra” è il secondo documentario in concorso a Venezia 70 dopo “The Unknown Known” di Errol Morris, due facce completamente diverse della produzione documentaristica di cui sicuramente questa rappresenta un aspetto più interessante.
Per i primi sei mesi, Rosi ha soltanto esplorato il Raccordo, dopodiché ha iniziato a girare, seguendo le storie che aveva scelto, vivendo con loro, respirando la loro quotidianità e accumulando tantissimo materiale. Solo per la storia di Roberto, operatore a bordo delle ambulanze del 118, ha seguito circa 200 interventi, per poi inserirne nel montaggio soltanto due. Qual è il senso di un’immersione nel dedalo intricato di universi ai margini, di drop-out, di esistenze ai bordi? Semplicemente, raccontare: il regista ha schivato il pericolo di uno sguardo pietistico, offrendo piuttosto un intreccio di vite vissute che si presentano per quello che sono.
Abbiamo quindi l’anguillaro su una zattera sul Tevere, il palmologo a caccia di punteruoli rossi, che scova nelle piante ascoltando i loro suoni, vecchie prostitute, un nobile piemontese con sua figlia, la cui eleganza d’altri tempi confligge con il monolocale assegnatogli a bordo del raccordo, un principe decaduto e sua moglie nella loro ex-sfarzosa villa, un barelliere che ogni sera salva vite umane, ma i cui affetti viaggiano via skype. Quei condomini, risultato dell’informe urbanizzazione della periferia romana oggetto di tante riflessioni, sono “città invisibili”, così come invisibili sono le storie di chi li popola. Come prevedibile, il senso di avere un documentario in concorso risiede molto di più in “Sacro Gra” che in “The Unknown Known”: sebbene con un ritmo lento che non lo rende fruibile agli spettatori meno allenati alla pazienza, il film schiude dei mondi e li descrive senza intenti di denuncia o con ipocrita benevolenza borghese, altro pericolo scampato. Un vero e proprio documento, poetico in quanto poetiche sono quelle umanità, che il regista ha potuto far venir fuori in maniera così naturale proprio perché ha trascorso insieme a loro un pezzo di vita.