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Massimo Troisi non temeva la sua lingua, ci spinse a fare lo stesso

A 20 anni dalla morte di Massimo Troisi restano tante cose, tra cui la naturalezza con cui rimase fedele al suo dialetto, o meglio la sua lingua, intuendo che la traduzione, specie quando si tratta di napoletano, oltre che tradimento può essere fallimento.
A cura di Andrea Parrella
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In un'aula universitaria di Lettere, a Napoli, al primo anno, quando si comincia a familiarizzare con i precetti della linguistica italiana e dell'ostacolo insormontabile che essa rappresenta, un manipolo di studenti alle prime armi cerca di capire cosa sia esattamente l'italiano regionale (che forse non lo sanno bene nemmeno i linguisti esperti). Dopo una discussione accesa, il conciliabolo pare arrivare ad un esempio conclusivo, preciso o meno poco importa, che pare accontentare tutti: Massimo Troisi. Vedete, può sembrare una stucchevole pratica sciovinista quella di noi napoletani, quella di precisare insistentemente come Troisi fosse roba di questa terra, volerci mettere sempre e comunque il cappello sopra, per quanto non ce ne fosse bisogno. Ma quest'aneddoto, realmente accaduto e che potrebbe procurare sincopi sparse a diversi docenti, fa intuire come questo spirito conservativo non sia, in realtà, un atteggiamento di maniera, ma qualcosa che sta nell'aria, esiste, per un un personaggio che, come dice Valerio Caprara "Rappresenta l'amore per la vita".

Nessun imbarazzo verso il napoletano

In questa modernità la prima cosa che viene da dire in merito all'uomo, all'artista Troisi, è che semplicemente parlasse per gli italiani, tutti quelli che un italiano regionale, superfluo specificare la regione, lo parlano in ogni istante della loro giornata; e che eccezionalmente parlasse per noi napoletani, il cui italiano regionale "si sente un po' di più". Una distinzione che un po' tutti noi siamo stati abituati a soffrire con imbarazzo, per quel perverso intreccio tra luogo comune e vittimismo che ci ha storicamente portati a essere e sentirci additati di qualcosa. Lo stesso imbarazzo svanisce quando la linguistica ti racconta che, altro che dialetto, il napoletano è una lingua, dell'italiano sorella, subordinata per convenzione, ma non per storia. Insomma, che a conoscere e parlare napoletano non c'è proprio motivo di vergognarsi.

Troisi assecondava i suoi talenti

Mi sorprende sempre sapere che, nel caso personale, la scoperta "neoborbonica" sia coincisa con l'associazione a chi più di chiunque altro, negli ultimi decenni, abbia sostenuto quest'idea paritaria naturalmente ed involontariamente, senza appellarsi al cenno storico-linguistico: Massimo Troisi non ha mai dato impressione di imbarazzarsi per come diceva le cose (né tantomeno per ciò che diceva). La sua non è stata una sfida ad un establishment culturale, perché Troisi la sua lingua non l'ha mai imposta, ha viaggiato in direzione opposta rispetto a chi tenti di rendersi immune alle critiche con l'irriverenza del disinteresse. Credo che abbia semplicemente mescolato quelle affinità elettive con il verbo e l'espressività che si trovava nel proprio bagaglio, intuendo che la traduzione, specie quando si tratta di napoletano, oltre che tradimento può essere fallimento. Se oggi mi infastidisce sentire una madre rimproverare il figlio perché si è appena espresso in napoletano, lo devo sì agli studi ma, idealmente, è un merito che mi sento di riconoscere a Massimo Troisi, morto vent'anni fa esatti, quando ancora mia madre mi rimproverava se mi sentiva parlare in napoletano.

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