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“Taxi Driver”: il cult esistenzialista di Martin Scorsese compie 40 anni

L’8 febbraio 1976 usciva il cult di Martin Scorsese, scritto da Paul Schrader, con un fantastico Robert De Niro nei panni di Travis Bickle, reduce del Vietnam che si ritroverà a fare i conti con la solitudine e i disturbi mentali e fisici dei veterani. Una pellicola che entrata nella storia del cinema e che andrebbe rivista milioni di volte ancora per apprezzarne tutte le sfaccettature.
A cura di Ciro Brandi
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“Ma dici a me? Ma dici a me? Ehi, con chi stai parlando? Dici a me? Non ci sono che io qui!”. Questa è una delle battute più celebri pronunciate allo specchio (tra l’altro, totalmente improvvisata) da Travis Bickle/Robert De Niro, protagonista del film “Taxi Driver”, diretto da Martin Scorsese e scritto da Paul Schrader, che l’8 febbraio compie 40 anni. Un cult immortale, uno dei film più complessi, crudi, violenti e toccanti della storia del cinema mondiale che andrebbe rivisto milioni di volte per la sua fenomenale bellezza, il tema esistenzialista trattato in maniera sublime e la bravura degli attori protagonisti.

Dostoevskij ispiratore del personaggio di Travis Bickle

Scorsese e Schrader, come fonte d’ispirazione, sono partiti dai romanzi “Memorie dal sottosuolo” e “Delitto e castigo”, di Dostoevskij per raccontare la storia di Travis, reduce del Vietnam, estremamente segnato da ciò che ha vissuto in guerra. Il sintomo peggiore che ha, da quando è tornato, è una tremenda insonnia, quindi, si fa assumere come tassista notturno, alle prese col peggio di New York. Purtroppo, la sua situazione non fa altro che peggiorare e, quando viene rifiutato da Betsy, Travis allora cede alla violenza, facendo una spedizione punitiva in un bordello, per tornare poi nella sua immensa solitudine.

Travis, un angelo vendicatore emarginato dalla società

La pellicola fu, sin da subito, un grandissimo successo commerciale e riuscì a portare a casa ben 4 nomination agli Oscar e la Palma d’Oro al Festival di Cannes, oltre a una caterva di altri premi. Naturalmente, il pilastro principale su cui regge tutto il pathos del film è Robert De Niro che, per entrare pienamente nel ruolo del solitario e violento Travis Bickle, ottenne la patente e lavorò realmente come tassista a New York, oltre a recarsi in vari istituti per studiare le malattie mentali. La critica lo ha osannato e ha definito il film di Scorsese come il primo riuscito a raccontare realmente, sul grande schermo, l’impatto che il conflitto del Vietnam ha avuto sulla psiche dei soldati e i traumi che i veterani hanno subito una volta tornati in patria. Solitudine, alienazione, disturbi fisici e mentali, volontà omicida, sono tutti comportamenti che Travis mostra nel film, con estremo realismo, offrendo agli spettatori il suo dramma interiore, il suo vuoto, che si esplica in una New York spettrale, dove conosce la piccola prostituta Iris/Jodie Foster, a quell’epoca 13enne, e vivono la sua amata Betsy/Cybill Shepherd, impiegata al servizio del senatore Charles Palantine/Leonard Harris e Harvey Keitel nei panni di Matthew “Sport”, protettore e amante della piccola Iris. Travis si muove, in questo inferno, come un angelo vendicatore – come definito da molti addetti ai lavori – un antieroe emarginato che cerca una missione da portare a termine, per non sentirsi una larva e liberarsi dalla solitudine, unica sua compagna, assieme al televisore, perennemente acceso sul nulla, attraverso cui Scorsese e Schrader vogliono colpire i media, rei di filtrare la realtà e manovrare le nostre vite come burattini, assolvendoci o condannandoci a morte. L’epilogo, che rappresenta anche la climax del film (reale o onirica che sia), rappresenta un atto di sfogo del protagonista, una sorta di esplosione per affermare al mondo che lui esiste ancora, anche se la sua anima è irrimediabilmente ferita. Semplicemente inarrivabile.

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