Ugo Tognazzi provò a dirci che il gossip è “una cazzata”
Il 27 ottobre del 1990 moriva Ugo Tognazzi, mattatore del cinema italiano degli anni d'oro, uno dei "mostri", insieme a Gassman, Mastroianni e Manfredi, il talento e l'istinto al potere. Gli aggettivi si sprecano, provare a ripeterli sarebbe superficiale, presuntuoso tentare di trovarne di nuovi. Sul suo conto è stato detto di tutto e non va aggiunto di più. Amato dagli italiani per quell'indole che lo faceva così anomalo ed atipico rispetto agli abituali personaggi che abitano e abitavano il mondo dello spettacolo italiano, gli amici Villaggio e Arbore si divertivano a raccontare i suoi esperimenti culinari ai quali i colleghi e gli amici venivano sottoposti come cavie, forniti anche di fogli a mò di schede di valutazione per giudicare i suoi piatti: buono, discreto, merda e grandissima merda le scelte possibili. Senza dimenticare, naturalmente, che il tratto caratteriale distintivo di quell'anticonformismo fantasioso che deve aver ispirato il mitologico personaggio del conte Mascetti di "Amici Miei", un film di 40 anni fa che sarebbe ingeneroso e ingiusto provare a sintetizzare in poche parole.
Il finto arresto del 1979
Il suo capolavoro assoluto resta questo, di quando si fece fotografare in manette, con l'accusa di essere capo delle Brigate Rosse. Un meraviglioso scherzo, degno del colpo di genio del Necchi, una burla di proporzioni colossali organizzata con il settimanale satirico "Il Male" e la complicità dell'amico Raimondo Vianello alla quale abboccarono quotidiani del calibro di "Paese Sera", "La Stampa" e "Il Giorno". Per fare un paragone con la contemporaneità, e rendere l'idea del calibro del personaggio e della notizia, sarebbe come se oggi i giornali titolassero che "Pierfrancesco Favino è indagato nell'inchiesta di Mafia Capitale".
Ugo Tognazzi dichiarò di aver partecipato allo scherzo con la giustificazione di difendere il sacrosanto "diritto alla cazzata", una frase epica che non delegittimava il gossip in sé, ma lo relegava al posto in cui dovrebbe stare. Forse servirebbe che oggi qualche suo erede mediatico ribadisse il concetto, per curare tutti, chi scrive e chi legge, dalla corsa sfrenata al pettegolezzo. Sarebbe un ottimo presupposto dal quale partire per prendere meno sul serio noi stessi e quello che facciamo. Molto spesso si tratta di cazzate, ma a farle passare come serie basta niente. A scanso di equivoci, Favino non è stato indagato per nulla, nemmeno lontanamente, ma l'augurio è che una burla del genere sia capace, prima o poi, di farla sul serio.