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25 anni fa usciva “Piccolo Buddha”, la fiaba orientale del maestro Bernardo Bertolucci

Il 1° dicembre del 1993, usciva in Francia la 13esima pellicola del compianto maestro che racconta una vera e propria favola, ponendo in parallelo le storie del lama Norbu e del piccolo Jesse con quella del Principe Siddharta, diventato poi il venerato Buddha. Un capolavoro che poggia su spiritualità, leggenda e tradizioni secolari ambientate in un luogo onirico diviso tra passato e presente che, ancora oggi, fa bene all’anima.
A cura di Ciro Brandi
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25 anni, esattamente il 1° dicembre 1993, usciva in Francia “Piccolo Buddha”, 13esima pellicola del grande e compianto maestro Bernardo Bertolucci, venuto a mancare lo scorso 26 novembre. Il film, tratto dall’omonimo romanzo di Gordon McGill, è incentrato sulla storia di Jesse Konrad (Alex Wiesendanger), un bimbo di Seattle che vive con i genitori Dean (Chris Isaak) e Lisa (Bridget Fonda). Un giorno, la famiglia riceve la visita di alcuni monaci buddisti del regno del Bhutan, guidati dal Lama Norbu (Ying Ruocheng). Questi credono che il bimbo sia la reincarnazione di uno dei loro più grandi lama e lo vorrebbero portare nella loro terra a studiare il buddismo. Dopo alcuni tentennamenti, il padre lo accompagnerà in questa straordinaria avventura, in un mondo totalmente diverso dal loro. Tra Jesse e il lama s’instaura subito un legame profondo e quest’ultimo gli racconterà la leggendaria storia del Principe Siddharta (Keanu Reeves) la storia, destinato a diventare il venerato Buddha.

Le storie parallele di Siddharta e del piccolo Jesse

Dopo “L’ultimo imperatore”(1997) e “Il tè nel deserto”(1990), Bertolucci con “Piccolo Buddha” ci riporta in un’ambientazione esotica ed onirica, ma con intenzioni totalmente diverse. Il regista racconta una vera e propria favola, ponendo in netto contrasto la grigia routine del mondo occidentale (Seattle) ai colori e alla vita semplice e fiabesca di quello orientale (Bhutan), naturalmente senza mai trascendere in moralismi negativi o pregiudizi. Grazie ad una sceneggiatura straordinaria, scritta a quattro mani col premio Oscar Mark Peploe, Bertolucci incanta con una miscela perfetta di religiosità, spiritualità, leggenda, tradizioni secolari che convergono nella figura del Principe Siddharta, da sempre una delle figure più amate della letteratura mondiale, e nel buddhismo. La sua svolta ascetica, dopo aver conosciuto il dolore e la morte, fa da cornice e scorre in parallelo alla storia tra il saggio lama e il piccolo Jesse, in un crescendo di emozioni positive e di estasi estetica di cui il regista piacentino era ben consapevole.

Un cast perfetto e consolidato

Il regista piacentino scelse accuratamente il cast e la squadra tecnica affinché tutto funzionasse alla perfezione e portasse ad un risultato eccellente. Sbalordisce la prova del piccolo Alex Wiesendanger, coadiuvato dall’ottimo di Chris Isaak, nei panni del suo (inizialmente) tormentato padre Dean, noto più come cantante che come attore, e dalla grande Bridget Fonda, madre preoccupata e contraria ad un cambiamento di vita così radicale e stravolgente per tutti. Ying Ruocheng, invece, era già una vecchia conoscenza di Bertolucci, dato che avevano già lavorato assieme in occasione de “L’ultimo imperatore”, quindi la fiducia e la stima tra i due erano ben consolidate. Indubbiamente, il personaggio portante di tutto il progetto è Siddharta/Buddha, interpretato da un fenomenale Keanu Reeves. All’epoca, l’attore era già noto per “Point Break”(1991) e “Dracula di Bram Stoker”(1992), ma grazie al magico ruolo offertogli da Bertolucci, riuscì ad aggiungere uno dei tasselli più iconici al mosaico delle performance più riuscite della sua carriera.

La squadra tecnica da Oscar

La meravigliosa fotografia dai toni caldi e accesi, caratteristica fondamentale del film, è opera dell'eclettico Vittorio Storaro, vincitore per ben tre volte del premio Oscar per “Apocalypse Now”, “Reds” e “L’ultimo imperatore”, mentre per il montaggio furono scelti il due volte premio Oscar Pietro Scalia e Daniele Sordoni invece per le sontuose scenografia fu assoldato James Acheson, anch’egli vincitore dell’Oscar per tre volte. E come dimenticare la sognante colonna sonora? Ebbene, anche in questo caso Bertolucci volle di nuovo il giapponese Ryūichi Sakamoto, premiato dall’Academy proprio per le musiche de “L’ultimo imperatore”, ma che per il regista compose anche le musiche de “Il tè nel deserto”.

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