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Bullock e Adams senza Oscar, il trionfo di Lupita poteva attendere

Scontata la consacrazione per Cate Blanchett come miglior attrice protagonista, che ha lasciato a mani vuote attrici meritevoli come Sandra Bullock e Amy Adams. Lupita Nyong’o, premiata come miglior attrice non protagonista, da giovane esordiente forse poteva aspettare la prossima prova.
A cura di Daniela Scotto
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Gli Oscar femminili del 2014 non hanno riservato nessuna sorpresa: due vittorie annunciate, due corse senza ostacoli. La Miglior attrice protagonista, Cate Blanchett, visto l’enorme successo di pubblico e di critica rispetto al suo personaggio in Blue Jasmine di Woody Allen, non ha dovuto temere neanche la strepitosa Sandra Bullock di “Gravity”, film pluripremiato dal punto di vista tecnico e come miglior regia. Stesso discorso, ma per diverse motivazioni, per la miglior attrice non protagonista Lupita Nyong’o in “12 anni schiavo” di Steve McQueen (miglior film): il suo profilo di nuova icona di innata grazia, senza disdegnare un certo impegno politico, era già ben disegnato.

Una donna tradita, ferita, sola, ma anche bugiarda e infantile, nel ruolo ispirato a quello di Blanche DuBois di “Un tram che si chiama Desiderio”, aggiornato in chiave moderna. Una donna la cui fragilità può ispirare ugualmente tenerezza o irritazione. L’attrice australiana ha strappato la statuetta alla favorita in secundis Amy Adams, la sexy complice di Christian Bale, dalla raffinata intelligenza, in “American Hustle” di David O’ Russell, nonché alla strepitosa Sandra Bullock di “Gravity” di Alfonso Cuaron, che con questa seconda statuetta, ben più meritata, dopo la discussa vittoria con il biopic sportivo “The Blind Side” del 2009, avrebbe fugato ogni dubbio sulle sue capacità d’attrice.

L’eccesso di overacting non ha fatto bene a Meryl Streep, alla sua diciottesima candidatura per “I segreti di Osage County” di John Wells, e il ruolo fin troppo classico di Judi Dench in “Philomena” di Stephen Frears non ha in fondo aggiunto nulla a quanto non sappiamo già della divina attrice. Il polverone sollevatosi su Woody Allen, accusato di abusi sessuali da Dylan Farrow, figlia di Mia, non ha gettato nessuna ombra sulla conquista dell’Oscar della sua protagonista, già vincitrice nella categoria non protagonista in “The Aviator” di Scorsese dieci anni fa.

Colpisce, ma neanche tanto, la seconda statuetta al femminile in quest’annata monstre degli Oscar, quella della giovane Lupita Nyong’o, esordiente in “12 anni schiavo” di Steve McQueen, il primo regista di colore a vincere il premio come miglior film e titolo con il quale l’Academy sembra voler farsi perdonare di qualche torto inflitto agli altri sulla stessa tematica, quella della schiavitù in America, come “Il colore viola” e “Amistad” di Spielberg, entrambi all’asciutto.

Nata in Messico da genitori kenyoti, laureata in cinema negli Stati Uniti, Lupita Nyong’o ha in realtà esordito nel 2009 come regista del documentario “In my genes”, sulle discriminazioni di cui sono vittime gli albini in Kenya. Il profilo dell’attrice era quindi già chiaramente delineato. Nel film di McQueen interpreta Patsey, la schiava favorita di Epps (Michael Fassbender), lo spregevole tenutario di una piantagione di cotone, attratto da lei ed al contempo inorridito per questa sua inconcepibile passione. Patsey diventa così oggetto di attenzioni e di terribili violenze, nonché dell’invidia della moglie di Epps (la star di “American Horror Story” Sara Paulson). Per dar vita al personaggio di Patsey, combattuta tra il desiderio di morire e quello di sopravvivere all’orrore, mentre riscopre un accenno di tenerezza creando le sue bamboline di cotone, l’attrice trentenne ha studiato l’accento delle protagoniste del documentario “The Quilts of Gees Bend”, su una sconosciuta comunità afro-americana dell’Alabama.

Un nuovo volto simbolo delle vessazioni subite nel sud schiavista, un’interpretazione carica d’intensità, ma pur sempre una

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prima interpretazione: non è forse un po’ frettolosa questa assegnazione? La Nyong’o gareggiava con June Squibb, arzilla e lucida vecchietta dalla lingua tagliente, che strappa più di una risata in “Nebraska” di Alexander Payne; Jennifer Lawrence, nei panni della conturbante quanto squinternata moglie di Christian Bale in “American Hustle” era data per favorita, anche se già vincitrice di una statuetta come miglior attrice nel 2012 per “Il lato positivo”. Nella cinquina era entrata anche Sally Hawkins, sorella adottiva di Jasmine nel film di Woody Allen, nota al pubblico dopo “Happy Go Lucky” di Mike Leigh. Ma l’interpretazione femminile più moderna e più toccante era senza dubbio quella di Julia Roberts in “I segreti di Osage County”, in cui del caldo sorriso e della dolcezza dell’attrice non c’è traccia, piuttosto si scopre una donna severa, indurita dalla vita e capace, con fermezza, di prendere in mano le redini di una famiglia allo sfascio. Sarebbe stato il secondo Oscar per la Roberts dopo “Erin Brockovich” (2000) ma avrebbe segnato una diversa fase della carriera, una nuova maturità da premiare, anche alla luce della vittoria come miglior film di “12 anni schiavo”, un film interessante e “utile” sì, ma che di certo non cambierà la storia del cinema come “Gravity” né colpisce per una qualche originalità narrativa.

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