Francesco Rosi, cacciatore di verità in un’Italia allo sbando
Oggi, l’Italia piange uno dei suoi registi più rappresentativi. Francesco Rosi, nella sua lunga carriera, iniziata negli anni Cinquanta, ha saputo coniugare nella sua narrazione cinematografica stile, eleganza, talento, a temi popolari e apprezzati da qualsiasi classe sociale, allontanandosi dalla “prigione” del cinema d’elite e raccontando l’Italia per quella che era, senza filtri, servendosi del talento di attori del calibro di Gian Maria Volonté e Philippe Noiret. Non ha mai sentito la pressione e l’ansia di seguire o fare meglio di alcuni suoi illustri colleghi che hanno percorso, più o meno, il suo stesso sentiero cinematografico, come, tra gli altri, Alberto Lattuada, Goffredo Alessandrini, Elio Petri e il grande Luchino Visconti, ma è riuscito a ritagliarsi il suo immenso spazio dove ha potuto esprimere tutto quello che voleva, colpendo in primis, con le sue “fucilate” registiche, la classe dirigente italiana e i suoi interessi sotterranei, la demagogia politica, invitando il popolo italiano a svegliarsi, e mai come oggi, i suoi film potrebbero essere tranquillamente proiettati di nuovo nelle nostre sale, dato che nulla sembra essere cambiato da quegli anni bui della storia del nostro paese.
Le leggi del suo cinema
Indipendenza, verità e concretezza sono le leggi del suo cinema, concetti sui quali poggia quasi tutta la sua straordinaria filmografia. Una delle pietre miliari del nostro cinema è proprio il suo “Salvatore Giuliano”(1962), presentato in concorso al Festival di Berlino 1962, dove vinse l'Orso d'argento per il miglior regista nonché tre Nastri d'argento, che attraverso la narrazione della storia del tristemente noto criminale criminale siciliano, offre un ritratto talmente vivido dell’Italia da far paura. L’anno dopo, continua sulla strada dei film d’inchiesta, e gira il suo capolavoro, “Le mani sulla città”, con un fenomenale Rod Steiger nei panni di Edoardo Nottola, costruttore edile e consigliere comunale nelle fila della destra. Il film è è una spietata denuncia della corruzione e della speculazione edilizia dell'Italia degli anni Sessanta. La didascalia della pellicola diceva: «I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce», che potrebbe racchiudere, in realtà, il senso di tutto il lavoro di Rosi.
Con “Uomini contro”, del 1970, Rosi denunciò aspramente la follia della guerra, affidando il ruolo del protagonista, il Tenente Ottoleghi, ad un Gian Maria Volonté da Oscar. Allora, il regista fu, addirittura, denunciato per vilipendio dell’esercito, ma fu assolto in istruttoria. Il film venne duramente boicottato, tolto dai cinema, con la scusa di telefonate minatorie agli esercenti. Volonté presto il suo talento anche in film cult come “Il caso Mattei”, del 1972 e “Lucky Luciano” (1973), boss della criminalità italoamericana di New York. Con “Cadaveri eccellenti”, del 1976, tratto dal romanzo “Il contesto”, di Leonardo Sciascia, e con un fantastico Lino Ventura nei panni dell’Ispettore Amerigo Rogas, Rosi torna a puntare il dito sulla tremenda situazione in cui versa l’Italia, negli anni Settanta, i cosiddetti “anni di piombo”.
Il potere delle forze occulte e il loro rapporto con lo stato italiano, le tentazioni golpistiche, le rivolte giovanili, la voluta inerzia del PCI, tutti argomenti forti che scatenarono, all’indomani dell’uscita del film, molte polemiche, soprattutto per la battuta pronunciata nel finale dal segretario del partito comunista: «La verità non è sempre rivoluzionaria» usata da Rosi per denotare l'omertà dell'opposizione di fronte alla corruzione imperante e molto spesso impunita. Questo era Rosi, cacciatore di verità in un’Italia allo sbando, sognatore di un Paese migliore, degno della sua storia e della sua bellezza, come tutti noi.