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“Il Capitale Umano” di Virzì, lo schianto di un’Italia non più solo decadente

L’ultimo lavoro di Paolo Virzì è una conferma, quella di un regista che dopo aver raccontato la caduta dell’Italia, ha saputo narrare quello che sembra l’atto finale, lo schianto.
A cura di Andrea Parrella
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Seppure a qualche giorno di distanza dall'uscita, vanno spese delle parole per "Il Capitale Umano", l'ultimo film di Paolo Virzì che senza audio non avrebbe niente da invidiare un thriller americano, pure di successo. Ora non è che ci si debba sempre e per forza appellare all'America per essere credibile in termini cinematografici e infatti, il lavoro del regista livornese dimostra che con il talento ed una buona dose di coraggio, il paragone potremmo tranquillamente scrollarcelo di dosso. "Il capitale umano" è la migliore pellicola dell'anno, e non solo perché l'anno è appena iniziato, ma perché è la testimonianza della definitiva maturità di un regista non solo in grado di raccontare, ma soprattutto inaspettatamente capace a sopportare il peso di essere diventato un nome, di avere su di sé l'attenzione puntata. Quella che comunemente chiameremmo aspettativa.

 
 

Da sempre dotato dell'innata qualità di saper inquadrare la decadenza umana contemporanea, dello sguardo ironico ed in fondo ottimistico col quale ha dipinto personaggi e situazioni che restano impresse nell'immaginario collettivo del pubblico, Virzì dimostra di sapersi confrontare con l'evoluzione della decadenza: il decaduto, il definitivamente decaduto, senza più speranze residue, l'ultimo atto. Qualche anno fa avevamo Lara, la centralinista laureata in filosofia che riusciva a scovare nel Grande Fratello gli elementi di interesse per una tesi di dottorato, tutto sintomatico di un respiro che, seppur rantolante, era animato da un filo di speranza. Oggi quel respiro affannato è oltremodo appesantito in maniera esiziale dal racconto di una generazione adulta che divora la più giovane, vendendone infine i pochi resti per pararsi il didietro e non finire nel baratro.

Importa poco se la struttura del film manca di grande originalità (se ne vedono un po' troppi divisi in capitoli dei quali ognuno corrisponda alla stessa storia raccontata dal punto di vista di un diverso personaggio), è una pecca (se di pecca si può parlare) ampiamente compensata da attori di livello assoluto e dall'inesorabile convinzione che per quanto si tratti dell'adattamento di un romanzo ambientato in Connecticut (l'omonimo dell'autore Stephen Amidon), la Brianza, o per meglio dire l'Italia, non abbia nulla da invidiare quanto ad attitudine dell'ambientazione (il botta e risposta sulla "Brianza velenosa" tra il regista e i politici locali ha del significativo). Ma dice bene Fabrizio Gifuni, che ha presentato a Napoli il film qualche giorno fa, quando afferma che la parabola rappresentata nel film ha a che fare con tutto il mondo occidentale, senza precise coordinate geografiche, più che altro utili alla narrazione.

E ancora, in merito a Virzì, va considerata l'impressione tangibile che la buona riuscita dei suoi film possa derivare dal contrasto tra la sua facciata, quella di uno che pare non averci il "fisico del ruolo", e la sensibilità che mostra dietro la cinepresa. La qualità dei messaggi che trasmette, più che nella complessità sta nella loro inequivocabilità, in grado di essere esplicito tenendo la banalità a distanza di sicurezza con inusuale nonchalance. E' ricorrente, dopo la visione di un suo film non chiedersi mai cosa abbia voluto dire, semmai ci si interroga su come ce l'abbia detto. Il difetto di molti registi è cadere e pure crogiolarsi nell'effetto opposto.

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