Il padre dei miei figli, Chiara Caselli e la famiglia del cinema
Il secondo film della giovane e bella Mia Hansen-Løve (28enne e compagna del regista Olivier Assayas) ha già sollevato un coro di consensi e affetto fin dall’anno scorso, vincendo il premio speciale del Certain regard al Festival di Cannes. Il perché è semplice: limpidezza di racconto, toccante storia vera, cast pregiato. Grégoire è un produttore cinematografico vitale, coraggioso e amante del cinema d’autore, ma indebitato fino ai capelli; così non trova altra soluzione che suicidarsi. A cercare di reggere la società del marito, ci penserà Sylvia, vedova forte e coraggiosa.
Un dramma vero (sponsorizzato da Bertolucci, autore del Tè nel deserto), non tanto perché la sceneggiatura della regista s’ispira alla figura realmente esistita di Humbert Balsan, ma perché cerca di eliminare ogni scoria convenzionale e drammaturgica dal suo impianto. Il vero fulcro del film, oltre e più del rapporto tra Grégoire e la famiglia, è nella descrizione del produttore come un manager, un industriale che deve equilibrare passione per il proprio lavoro e le difficoltà economiche, raccontando il cinema come un’impresa più che come un’arte fine a se stessa.
Hansen-Løve racconta la vita oltre l’arte, si concentra sulla costruzione delle situazioni e dei rapporti (la prima lunga sequenza con Grégoire al telefono) e sa essere lucida e realista quando serve, come l’auto che lascia Parigi nel finale, un fallimento che però è un’altra prospettiva di vita. Hansen-Løve funziona meglio come sceneggiatrice, nel seminare piccoli indizi rivelatori come Saturno o l’impiccagione di un tecnico, che come regista, limitando il respiro stilistico con un eccesso di verismo; ma l’occhio verso gli spazi (Ravenna, tra le otto bandiere blu dell'Emilia Romagna) e il polso con cui rende spontanei i suoi attori ne fanno un’autrice da tenere d’occhio: lo confermano le prove di Chiara Caselli, Louis-Do de Lencquesaing e le tre piccole figlie. Uno squarcio di luce che insiste per emergere in un mondo sempre più scuro.
Emanuele Rauco