La Golino “come il vento” in un racconto umano con poche polemiche (RECENSIONE)
Sarà per la necessità di trovare un ordine al caos del presente che il cinema italiano guarda sempre più spesso al passato, attraversandone i fatti più eclatanti dal punto di vista di quegli individui che, nel quotidiano, con ogni singola vita hanno costruito la storia. In “Come il vento”, fuori concorso al Festival del cinema di Roma 2013, Marco Simon Puccioni (Quello che cerchi, Riparo) ha scelto la figura di Armida Miserere, una delle prime donne a dirigere varie carceri italiane, in quanto simbolo di quel rigore morale che negli anni in cui la mafia più efferata teneva il Paese sotto scacco, costituiva l’unico antagonismo possibile.
Senza eroismi, senza proclami, silenziosamente, la storia di Armida racconta come la mafia può ucciderti isolandoti, corrodendo la realtà intorno per far crollare una ad una ogni ancora di sicurezza. Per questa donna minuta dai capelli chiari, è stato scelto il volto di Valeria Golino, attrice dallo sguardo malinconico e dai toni sommessi, che è riuscita a rivelare la tenacia con cui il suo personaggio, fin dove ne ha avuto la forza, ha cercato di restare umana e soprattutto, di restare donna. Dopo l’omicidio per mano della ‘ndrangheta del suo compagno Umberto Mormile (un Filippo Timi nei toni giusti), educatore presso il carcere di Opera quando lei dirigeva quello di Lodi, l’esistenza di Armida Miserere (“un nome, due tragedie”) è proseguita di trasferimento in trasferimento, una sigaretta dietro l’altra, nelle carceri più difficili, come quello di Pianosa, isola in cui era unica donna su 1500 uomini, e l’Ucciardone di Palermo, in cui ottenne l’applicazione senza deroghe del regime 41/bis.
I fatti ci sono tutti, sebbene soltanto sfiorati: l’omicidio dell’ufficiale Montalto, l’arresto di Giovanni Brusca e le sue rivelazioni, il ricordo di Falcone e Borsellino. Ma “Come il vento” non è un film di mafia, come dimostra la grande quantità di immagini girate in primo piano sulla Golino: è un film sulla solitudine di una donna la cui forza non è bastata, che sceglie di andarsene perché i successi e gli attestati di stima, così come la condivisione della vita con agenti e magistrati, non potevano colmare il vuoto immenso di una vita senza amore. Forse è stato proprio lo Stato a chiederle troppo, ad impedirle in fondo di trovare una serenità con una vita più tranquilla?
Il film non sollecita polemiche tenendosi sempre sul filo di un racconto “umano”, eppure è difficile non porsi questa domanda. Possibile che quel crescendo di tragedia, così ben evidente nel film, fosse invisibile nella realtà, dopo le intimidazioni e i continui spostamenti? Una vita consacrata ad una causa, quella dell’integrità morale, che ha trovato conferme nel rispetto che Armida è riuscita ad ottenere in un contesto di uomini e di violenti, ma che non ha mai trovato il conforto di un nuovo amore. Un film che sconta questa severità, nelle sue atmosfere necessariamente cupe, ma che è importante per la ricostruzione della vita di quei giusti che la mafia ha distrutto senza clamore ma con uguale violenza.