La Grande Bellezza è schiavo dell’aspettativa: per Sorrentino finisce un ciclo?
Una riflessione preventiva all'analisi pura, vedrebbe molti fattori esogeni incidere sul giudizio che ogni normale spettatore possa formulare in merito a La Grande Bellezza, l'ultimo film di Paolo Sorrentino, presentato al Festival di Cannes ancora in corso. Su tutto, immancabile, un'aspettativa che pesa come un macigno, alla quale si aggiungono senza ombra di dubbio un titolo pretenzioso e, non ultimo, il lusso di girare un film della durata di quasi tre ore con un tappeto rosso già dispiegato dinanzi a sé; un lusso che che il regista si è fisiologicamente voluto permettere. Tutte cromature che contribuirebbero, indubitabilmente, a corroborare quella premessa riconducibile alla voce semplicistica e svelta del "basta, m'hai stufato, non puoi fare sempre le stesse cose". Senza voler offendere chi ne faccia parte, il club dei "ma, però…" è animato per buona parte da questo sentimento generale.
La verità è che quest'ultima questione dà voce ad un'istanza molto più articolata, che vive in funzione di un assunto imprescindibile: La Grande Bellezza è un lavoro di enormi proporzioni, visto sei anni fa avrebbe fatto gridare al capolavoro, ma sei anni fa non esisteva e non sarebbe potuto esistere, in quanto è un film che chiude un cerchio. Sorrentino è un intellettuale quarantenne che ha saputo inquadrare come pochi i luoghi fisici e umani più lugubri, squallidi e decadenti della contemporaneità italiana e del recente passato: nell'affresco ridondante della Roma che racconta non c'è un giovane che sia uno, il solo a comparire è, non casualmente, schizofrenico e suicida a causa di strane manie di persecuzione. In ogni suo lavoro la ricerca spasmodica, a setaccio, del bello è stata non solo presente, non solo portante, ma persino un po' presuntuosa, in ogni caso maturata in uno stato di italica cattività (non a caso This Must Be The Place è risultato il più indigesto, non per sue incapacità, ma perché la fase poetica e narrativa dell'autore deve indispensabilmente cibarsi dell'Italia). In quest'ottica l'ultimo lavoro è stato quanto di più vicino ad un saggio finale, risultante di quanto accumulato col lavoro di anni. Sorrentino ha girato i suoi film applicando con devozione i precetti della poetica ben definita di una vita abitata da quei piccoli, impercettibili e sparuti momenti di bellezza, sommersi da una coltre di squallore, o meglio di nulla. Un nulla che è tutto e non a caso il richiamo a Flaubert è un mantra più che una semplice citazione.
Questo sesto lavoro del regista napoletano è l'elemento ultimo di un ciclo definito, perché è palpabile l'impressione che certi stati d'animo, topos, atmosfere, non possano essere abbigliate meglio di quanto sia stato fatto questa volta. Non si capirà mai se l'opera che chiude un ciclo sia di quel ciclo l'espressione imperfettibile o l'esemplificazione dell'inizio della fine. Una cosa si crede: o Sorrentino comincerà ad abituarsi all'idea di raccontare le storie degli altri (e si comprende quanto possa essere arduo per lui), oppure accoglierà felicemente l'idea di stare fermo per qualche tempo. La terza alternativa, evitabile, è l'affanno nel rincorrere sfumature alternative di ciò che ci ha già detto, peraltro in modo assolutamente magistrale.