La teoria del nulla di Terry Gilliam non colpisce, interessante “Tom à la ferme”
Oggi alla 70 Mostra di Venezia un ritorno molto atteso, quello del visionario Terry Gilliam, l'ultima volta a Venezia nel 2005 con "I fratelli Grimm e l'incantevole strega", del 2005. “The Zero Theorem” parte bene, con quel Christoph Waltz glabro e allucinato, quel mondo futuribile dominato da un’irritante sovrabbondanza di immagini e di simulacri tecnologici di ciò che un tempo era vita, perfettamente nel filone del genere, da Ridley Scott in poi.
Ma è durata poco: è da troppi film (da Paura e delirio a Las Vegas in poi?) che Terry Gilliam non riesce ad andare oltre una pur indovinata visione immaginifica iniziale, che non sia supportata da un plot poco importa, ma quando anche le suggestioni risultano poco interessanti (tutto rimanda ancora a film come “Strange Days” e “Matrix” o a se stesso, "Brazil") proprio non riusciamo ad entusiasmarci del prodotto finale. Il teorema del nulla è la sintesi di un semplice interrogativo esistenziale: se niente ha un senso, che viviamo a fare? Leth (Waltz, attore che rappresenta sempre un valore assoluto a prescindere dal film che interpreta) inizia un po’ ovvio percorso di riapertura verso il mondo grazie ai piaceri che si era negato nella sua autopunitiva ascesi, quindi il cibo e l’amore.
Ma se niente serve a niente, in questo mondo in cui di vero non è rimasto alcunché, la soluzione finale non può che essere dissolversi nel nulla. Lo spunto è interessante, così come la figura del capo della Mancom, nominato impersonalmente solo come Management (Matt Damon), ombra senza cuore che gestisce tempo e coscienze dei suoi impiegati. Una visione apocalittica dell’attualità, con le sue dinamiche volte ad allontanare sempre di più l’individuo dalla concretezza, che non regge il passo, ad esempio, del capolavoro distopico della miniserie “Black Mirror”, che in questo terreno pure affonda i suoi presupposti. Con amarezza “The Zero Theorem” rappresenta nuovamente un’occasione mancata per un grande ritorno.
Al suo quarto lungometraggio, il giovanissimo regista Xavier Dolan presenta alla Mostra di Venezia un film ibrido, sospeso tra dramma e derisione: “Tom à la ferme”, la cui proiezione è stata accolta da più d’uno scroscio di risate (forse perché avevano tutti voglia di sorridere un po’, dopo “Miss Violence”). E invece, questo film dal registro indefinito è uno dei titoli più interessanti del concorso, proprio in vista dei suoi confini intersecanti il melodramma omosex e una drammatica vicenda ai limiti del thriller, con l’unica sicurezza che sugli stereotipi di uno e dell’altro si possa ironizzare in chiave pop. Sveliamo subito le carte: un efebico ragazzo di città si lascia invischiare in una relazione-sindrome di Stoccolma con un bifolco ma bello agricoltore della sconfinata e lontana provincia rurale, a causa della mancata elaborazione della perdita del suo ex fidanzato, fratello del rude picchiatore.
Non ci si può credere e infatti non ci crediamo: se la surrealtà e l’ovvietà della situazione fanno quasi ridere, non c’è dubbio che sia tutto intenzionale. Eppure quelle fughe tra i campi di mais, che diventano sfondo di violenza gratuita, quella costruzione dialogica tutta basata sulla menzogna crea un interesse ed una tensione che regge fino al bellissimo finale. Giocando con più registri stilistici e narrativi, “Tom à la ferme” sarebbe meritevole di un premio, considerato il livello accettabile ma senza scossoni (sempre “Miss Violence” a parte) del concorso finora.