Paola Randi: il cinema, i maestri e il popolo italiano – Intervista esclusiva alla regista di Into Paradiso
Salutiamo sempre con grande speranza ed entusiasmo l’affacciarsi di nuovi cineasti all’interno del panorama cinematografico nostrano. E così, quando abbiamo visto l’ottimo “Into Paradiso” di Paola Randi (i nostri lettori possono vedere qui il trailer di Into Paradiso) ci siamo subito messi in moto per poterla intervistare, chiacchierare un po’ con lei, conoscerla meglio e provare ad intuire quale potrebbe essere il suo percorso da adesso in poi.
Dei grandi maestri si conosce quasi tutto, la loro poetica, le loro ossessioni, punti forti e deboli; i giovani registi, invece, bisogna imparare a conoscerli e bisogna, soprattutto, sostenerli, perché possano arrivare ad esprimersi al massimo delle loro potenzialità. Noi abbiamo provato a conoscere un po’ meglio Paola. Abbiamo parlato di cinema, di grandi maestri, dei problemi che ogni giovane regista deve fronteggiare se vuole fare cinema in Italia e, naturalmente, del suo film: “Into Paradiso”, una pellicola accolta con grande favore sia dalla critica che dal pubblico, e che speriamo rappresenti il primo passo di una brillante carriera.
Cominciamo con una domanda impossibile. Una di quelle a cui quasi nessuno sa (o vuole) rispondere. Qual è il film a cui devi la tua passione per il cinema, il primo in ordine di tempo che ti ha colpito così tanto da farti dire “voglio farlo anch’io”?
Effettivamente è difficilissimo rispondere. Non so se è quello che mi ha spinto a fare cinema, ma sicuramente è uno dei ricordi più intensi della mia infanzia. Guerre Stellari (il primo che ora chiamano episodio IV) uscì che avevo 7 anni. Io, da brava appassionata di fantascienza, mi ero letta tutto il possibile sul film e non vedevo l’ora di gustarmelo al cinema. Soprattutto per gli effetti speciali di Rambaldi, un idolo che allora creava mondi e creature fantastiche con modellini e senza l’ausilio del digitale. Ricordo perfettamente come fosse ora: io, seduta nel cinema prima dello spettacolo, con il cuore che batteva e il fiato sospeso. Buio. Comincia la scritta obliqua che va verso l’infinito (non si era mai visto niente di simile sullo schermo prima di allora) parte la musica compare il titolo e il mio cuore esplode! Ho sognato poi per anni di essere un pilota di un caccia stellare, di combattere con i laser, vincere e di passare a volo radente sulla nave madre per festeggiare il trionfo!
EPISODIO IV GUERRE STELLARI – Una nuova speranza
Woody Allen ha detto che vuole girare il remake del tuo film, considerando che Allen non è avvezzo al remake e che gira solo pellicole molto vicine alla sua sensibilità artistica, come ti fa sentire l’idea che possa voler “adottare” il tuo film? Ti senti vicina al suo mondo?
Magari Woody Allen volesse fare il remake del mio film!!! Soprattutto Scarlett sarebbe favolosa nei panni del giocatore di cricket srilankese! Purtroppo si faceva per scherzare, Woody Allen è un maestro, un uomo geniale, scriveva spettacoli comici strepitosi che aveva poco più di vent’anni. Ha uno stile meraviglioso e sicuramente mi riconosco nella sua voglia di giocare con il cinema senza mai prenderlo o prendersi troppo sul serio. Indimenticabile ad esempio la sequenza della coda al cinema in "Io ed Annie", che meraviglia! Per chi voglia rivedersela eccola:
IO E ANNIE – Scena della coda al cinema
Restando su questa affermazione di Allen, proviamo a fare il gioco all’incontrario: quale film di Allen sceglieresti se potessi girarne un remake? Perché? Cambieresti qualcosa dell’impianto generale della storia per renderla “più simile a te”?
Non ha senso fare un remake di un’opera di un autore così unico e personale come Allen. Sarebbe un sogno invece se lui scrivesse un copione per me ed io potessi metterlo in scena. Beh, che bellezza lavorare sullo script di un genio come quello!!! Woody ti prego, mandami quello che ti pare, un soggetto, una commedia… quello che vuoi!!!
Concentrandoci adesso su "Into Paradiso": ho notato che gli autori del soggetto, a parte te, non corrispondono agli autori della sceneggiatura, il che mi suggerisce l’idea di un “parto” piuttosto complesso. Mi racconti il processo creativo che c’è dietro la storia narrata da "Into Paradiso"?
È stato un lavoro lungo e complicato dare ordine alla mia iperproduttività e ridondante entusiasmo. Ognuno di quelli che ha lavorato alla sceneggiatura e al soggetto ha dato un prezioso contributo. Il processo di riscrittura è andato oltre la fase di scrittura vera e propria ed ècontinuato in ripresa e in montaggio. Non si finisce mai di impastare un film, io credo. Perfino oggi quando lo vedo non posso fare a meno di pensare: “Ecco, qua avrei dovuto fare questo o là avrei dovuto scegliere un’altra soluzione!”, impossibile essere completamente soddisfatti… e, forse, per fortuna!
Oggi “Chiunque voglia fare un film, lo può fare”. Questa una delle considerazioni di Herzog, recentemente ricordate da te nel corso di un’intervista. Se questa massima è vera – e lo è – altrettanto vero è che l’intrattenimento si base sempre di più sulla spettacolarizzazione degli effetti e sui grandi costi. Quale, allora, il futuro delle piccole produzioni?
Per la verità, gli effetti non sono presenti in nessuna delle recenti commedie italiane di grande incasso ed io personalmente preferisco farli in ripresa. Costano poco e sono molto più suggestivi! Con l’euro in più sul biglietto si è scongiurata, almeno temporaneamente, la super crisi che stava per investire come un’ariete il cinema italiano grazie alla, a dir poco, miope politica culturale messa in pratica nell’ultimo periodo. Finché gli italiani non riprenderanno in mano le cose scegliendo governanti che davvero rispondano alle esigenze della collettività e del paese, dubito che il panorama migliori. Ma io ho fiducia negli italiani e nelle italiane. La storia ci insegna che sopportiamo a lungo, anche troppo, ma quando vogliamo cambiare non c’e’ nulla che ci fermi!
L’Unità ha commentato positivamente il tuo film specificando, tra le altre cose, che la “scenografia è già un personaggio”; io, però, direi che Napoli più che un “personaggio” è una vera e propria attrice. Da questo punto di vista, come è “dirigere Napoli”, che tipo di attrice è la città?
Napoli non la puoi dirigere, ci puoi danzare, ma è lei a condurre te. Se ti offri a Napoli, la città si offre a te, svelando storie, luoghi e genti straordinarie. È una protagonista accogliente e generosa che non ti lascia mai sola.
Quello napoletano è un popolo straordinariamente accogliente, e non si tratta di vana retorica. Storicamente, Napoli ha sempre accolto tutti, è stata come una grande madre cui non è mai importato il colore, la cultura, i costumi dei suoi figli, anzi, spesso ha finito con l’adottare alcuni dei tratti culturali dei vari popoli che ha ospitato perché li ha trovati “più comodi”. Tutto questo comincia ad essere un po’ meno vero da qualche anno a questa parte. Tu che Napoli l’hai vissuta e raccontata oggi, che percezione hai avuto di tutto questo?
Napoli è un efficace specchio dell’Italia, perché tutta l’Italia è una terra che ha accolto molte diverse genti e culture, anzi tutta la nostra bellezza, tutta la nostra stupefacente arte e storia è il prodotto del mischiarsi di quelle culture. Così accade oggi e così sarà in futuro. Nessuno di questi passaggi può avvenire o è avvenuto senza conflitti, né per tutti gli italiani che hanno dovuto emigrare in passato, né oggi per i laureati che migrano per trovare lavoro. Io credo che gli italiani debbano solo ricordarsi chi sono: un popolo fiero e aperto, capace di accogliere e trasformare in ricchezza la diversità più di ogni altro popolo al mondo, senza incertezze e senza paura.
Da appassionata di linguistica e semantica, comincio col farti i complimenti per la scelta della parola “into” che racchiude in sé la sintesi dell’unione di una popolazione anglofona (com’è, in parte, quella srilankese) e quella “napoletanofona”. Quale credi che sia il momento del film che meglio esprime questa convivenza che, a tratti, si fa fusione?
Ti ringrazio! Ti dirò: io sono molto affezionata alla scena nella quale Gayaan, il campione di cricket, osserva in disparte un gruppo di giovani che giocano a calcio in piazza Mercato. Come se si dicesse: “Visto che forse mi tocca restare qui, fammi un po’ vedere a che cosa giocano questi”. Lui è un campione di uno sport sconosciuto da noi ed è lì a cercare di comprendere un popolo e la sua cultura attraverso il suo sport: il calcio. Due mondi a parte che condividono lo stesso spazio e si osservano con rispetto e curiosità.
Ogni giovane regista è all’ossessiva ricerca di un Maestro, di qualcuno che non si limiti ad insegnargli “a girare” ma che sia in grado si trasmettergli, quasi per osmosi, l’intera storia del “fare cinema”, che gli racconti degli aneddoti, che gli insegni trucchi che conoscono solo quelli del mestiere. Chi è stato il tuo Maestro? Qual è l’insegnamento che conservi più gelosamente e che secondo te potrebbe racchiudere il senso ultimo del “mestiere del cinema”?
Di maestri per fortuna ne ho avuti tanti. Ogni bravo maestro ti dice che non esiste un metodo universale di fare cinema, un modo giusto e un modo sbagliato. Ognuno scopre il suo ed ognuno ha il suo percorso. Tutti sono validi perche’ sono unici e irripetibili. Tra quelli che ho incontrato di persona ci sono Silvano Agosti, Mike Leigh, Stphen Frears, Walter Murch, Werner Herzog. Tutti avevano in comune una cosa. Una passione straordinaria. Sono tutti follemente innamorati del cinema e li capisco, lo sono anch’io.
Se avessi potuto scegliere un Maestro tra i grandi registi italiani ormai passati a miglior vita, quale avresti scelto? Perché?
Beh, mi sarebbe piaciuto fare due chiacchere con Monicelli, anche se feci in tempo a chiedergli una “benedizione” prima di girare il mio film. Stare su un set di Fellini, e su quello del Gattopardo di Visconti, scrivere con Flaiano o con Suso Cecchi D’Amico, fare da assistente a De Sica e a Ferreri. Perché? Perché con i loro film mi hanno cambiato la vita e non solo a me e dev’essere magnifico respirare l’aria di gente di questo calibro al lavoro!
Come diceva il grande José Saramago: “Dovrebbe bastar questo, dire di uno come si chiama e aspettare il resto della vita per sapere chi è, se mai lo sapremo, poiché essere non significa essere stato, essere stato non significa sarà”. Anche tu dici qualcosa di simile quando il personaggio di Alfonso afferma che “Non sempre conoscere il passato di una persona serve a capirla”. Ma se non è raccontandosi che due esseri umani o, per estensione, due popoli possono arrivare a comprendersi, in che modo possono riuscirci?
La battuta citata da Alfonso viene dalla finta telenovela "Palpitazione D’Amore" e per la verità e un po’ una presa per i fondelli di certi nonsense melò che caratterizzano la produzione televisiva seriale trash. Io la penso così: anche se sono certa di non avere gli strumenti per arrivare a comprendere tutto quello che mi circonda (un signore un po’ più antico di Saramago, Socrate, il padre dell’etica, diceva che l’unica cosa che sapeva per certo era di non sapere) , sono pero’ sicura che si debba rispettare anche quello che non si conosce o che non si comprende.