“Robinù”, il documentario di Michele Santoro sui baby killer della camorra
Il 6 e il 7 dicembre, arriva nei cinema “Robinù”, il film documentario diretto da Michele Santoro, sceneggiato con Maddalena Oliva e Micaela Farrocco, presentato alla 73esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e selezionato per il Festival Internazionale Di Film Documentari – IDFA di Amsterdam 2016. Il documentario racconta la "paranza dei bambini", cioè la faida che a Napoli, negli ultimi due anni, ha visto bande di adolescenti combattersi a colpi di kalashnikov per il controllo del territorio e del mercato della droga, in una guerra che conta già più di 60 morti. Sono giovani ribelli che sono riusciti a imporre una nuova legge di camorra per il controllo del mercato della droga. Una paranza che da Forcella si insinua nei Decumani, e scende giù fino ai Tribunali e a Porta Capuana: il ventre molle di Napoli, la periferia nel centro, tra turisti che di giorno riempiono le strade e gente che di notte si rintana nei bassi trasformati in nuove piazze di spaccio, il vero carburante capace di far girare a mille il motore della mattanza. Ciò che spaventa di più di questi baby killer è la concezione che hanno di quel mondo:
Tu queste cose le devi fare ora. Perché così, se vai in galera per 20 anni, esci e hai tutta la vita davanti.
Le storie di Mariano e Michelino, baby killer in prigione
Santoro ha raccolto la storia di due baby criminali, Mariano e Michelino. Il primo avrebbe fatto parte della paranza di fuoco dei D’Amico, il clan che controlla la periferia orientale di Napoli. Mariano è stato accusato di aver ucciso, con un complice, Raffaele Canfora, esponente 25enne, del clan dei Vanella Grassi di Secondigliano e, ora, sta scontando una condanna a 16 anni nel carcere minorile di Airola. Il secondo, sta scontando una pena a 24 anni, 16 con rito abbreviato, per tentato omicidio, lesioni, rapina e detenzione illegale di armi e, inizialmente, faceva parte del clan Mazzarella, al servizio di Salvatore Marino e Massimo Castellano. Nel documentario c’è il racconto dei loro familiari, il loro racconto diretto e crudo, senza mediazioni, quindi reale fino in fondo. Da vedere assolutamente.