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Silvio Orlando e il tormento dell’invidia: “È il nostro grande problema, la rabbia nasce cosi”

Intervista a tutto campo all’attore napoletano, al cinema dal 14 ottobre con Ariaferma di Leonardo Di Costanzo, assieme a Toni Servillo: “Salvatores? Siamo amici, ma non ho più lavorato con lui. Sorrentino ti fa soffrire per lavorare bene. Pupi Avati ti chiede come stai, per lui gli attori sono importantissimi”.
A cura di Gianmaria Tammaro
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Silvio Orlando ha un’idea precisa delle cose e del mondo; un’idea che non è totalizzante né assoluta, ma che riesce sempre a trovare la sua strada. C’è una chiarezza poetica in quello che dice, e nei suoi racconti i ricordi sono i mattoni temprati delle fondamenta. Si parte sempre da qualcosa: da uno spunto o da un’ispirazione. Recitare, spiega, è un’arte della memoria: si cerca tra le cose conosciute, e se ne creano di altre, nuove e allo stesso tempo familiari. Recitare “significa riattivare esperienze passate”. E quindi, quando gli è stato proposto il ruolo di Carmine Lagioia, detenuto, uomo di potere e cuoco provetto, Orlando ha avuto quasi paura. “Perché non riesco a concepire qualcosa che non mi appartiene, qualcosa che non ho già provato o visto”.

In “Ariaferma” di Leonardo Di Costanzo, prodotto da Tempesta di Carlo Cresto-Dina con Rai Cinema e distribuito da Vision Distribution, Orlando trova il suo spazio e la sua dimensione; crea un personaggio particolare, inedito, che si esprime semplicemente. Un’occhiata, un gesto, un movimento. E poi le parole: a volte cariche di confidenza, altre più leggere e sussurrate come sentenze inappellabili. “È stato diverso. Anche perché non conoscevo la sua biografia, e nel film non si parla molto del suo passato. Tutto si è ridotto a una questione antropologica, al suo modo di essere: agli sguardi, al fisico e ai movimenti. E quindi la paura era addirittura doppia. Di solito non interpreto ruoli come questo, da duro, senza avere la possibilità di crescere e di spiegare con la recitazione quello che sto facendo”.

Cioè?
All’interno dei film, costruisco il mio carisma. Parto da un punto, da una posizione, e poi lentamente vado avanti e cambio: divento quello che devo essere. Non sono uno di quegli attori con una presenza prepotente.

In “Ariaferma” ci sono tantissimi non detti.
Perché si raccontano spazi bianchi: luoghi e momenti non regolati. “Ariaferma” vive di sottintesi. Per Leonardo Di Costanzo gli spazi bianchi sono tutto, sono il suo strumento principale. Viene dai documentari, ed è questo che definisce il suo stile.

Poi, però, intervengono altre cose.
I rumori. I catenacci. I piccoli movimenti. Quando fai un film in un carcere, il protagonista è lo stesso carcere. L’ambiente finisce per determinare tutto. Non ci troviamo in un luogo neutrale. Ma in un luogo di dolore e di sofferenza. Sono cose che restano: sono impresse sulle pareti, e riempiono l’aria che respiri.

Alcune scene hanno un impianto quasi teatrale.
Questo fa parte anche dell’intelligenza produttiva del regista. Per avere un controllo sul film, è fondamentale ridurre le distanze e gli spostamenti. E infatti tutti i film di Di Costanzo, in qualche modo, sono concentrati e limitati da confini precisi. In questo modo, è più facile approfondire le relazioni e i ruoli.

Chi sono Lagioia e Gaetano?
I personaggi che interpretiamo io e Toni Servillo. Sono alla fine di un percorso; hanno già visto, già sentito e già vissuto. Quando incontrano questo ragazzo, Fantaccini (Pietro Giuliano), immaginano un nuovo inizio. E quindi arrivano l’apprensione, lo strazio, la voglia di farsi carico dei suoi problemi. Questo ragazzino fa da catalizzatore, insomma. Rappresenta un momento di sintesi di tutto quello che è stato.

E che cosa è stato?
Questo film, alla fine, parla di destino. E del modo in cui, a volte, il destino può essere spezzato. “Ariaferma” racconta tre giorni della vita di questi uomini. Lagioia è stato in carcere per molto, molto tempo: questa è solo una parentesi, un piccolo deragliamento.

E che cosa si impara?
Che anche dopo tanto tempo l’essenza delle persone rimane la stessa. Certo, sono diverse perché sono cambiate. Ma nel profondo sono uguali. È più facile odiare quando si è lontani, quando ci sono delle sbarre a dividerci. Quando però non ci sono divisioni, ci ritroviamo e ci rincontriamo: possiamo guardarci negli occhi, e svaniscono i ruoli.

Questo film e “Il bambino nascosto” di Roberto Andò (dal 3 novembre al cinema) hanno qualcosa in comune?
Assolutamente. Entrambi parlano di incontri. Io incontro il bambino, il bambino incontra me. Lagioia incontra Gaetano, Gaetano incontra Lagioia. Poi ci sono gli incidenti, e questi incontri diventano fatali. È come nella vita di ogni giorno: è importante rimanere attenti, tenere le orecchie aperte, perché tutto può cambiare da un momento all’altro. E poi c’è anche il tentativo di interrompere una catena apparentemente infinita di violenza e di dolore. E per violenza intendo violenza fisica e psicologica.

A proposito di incontri: che cosa ricorda di quello con Gabriele Salvatores?
Gabriele è un angelo. Perché ascolta e riconosce il valore degli altri. Perché capisce. È un regista demiurgo: riesce a valorizzare quello che hai dentro. Quando l’ho conosciuto, ha capito certe mie caratteristiche e ha visto il mio talento. Siamo diventati subito amici. Siamo andati in vacanza insieme, quello stesso anno. È nato un rapporto che, in quella Milano, non ti aspettavi di trovare. Poi però sono stato espulso dal suo percorso cinematografico: abbiamo fatto quel primo film (“Kamikazen – Ultima notte a Milano”, 1987), e poi ci siamo rincontrati per “Sud”.

In che senso “espulso”?
Non piacevo a tutti. Altri attori hanno continuato a lavorare con Gabriele, io no. Ma anche queste sono cose che succedono. In quel periodo, nella Milano degli anni ’80, ero stato identificato con il mio ruolo: ero il napoletano simpatico. Nessuna violenza o bullismo, per carità. È quella cosa impalpabile, quella cosa che c’è ancora oggi, che si sente, ma che non viene mai affrontata chiaramente.

Che cos’è?
A volte gli altri, quelli con cui parli, ti fanno il verso. Perché, appunto, sei napoletano. Ed è una cosa che mi fa impazzire. Vogliono mettere in chiaro di averti riconosciuto; vogliono dire: so che sei un napoletano, ma sei un napoletano buono; e a me, i napoletani buoni, piacciono tantissimo.

Qual è il problema?
Non basta darsi le regole; non basta scegliere certe parole e certi termini per esprimersi. Perché, nel profondo, c’è altro. C’è qualcosa che parte dalla superficialità delle persone e che, in certi casi, crea pregiudizi e distanze, e finisce per trasformare un tuo dettaglio, una tua caratteristica, in tutto quello che sei.

Parliamo di un altro regista: Paolo Virzì. Avete lavorato insieme in “Ferie d’agosto”.
E abbiamo collaborato anche in teatro. Con Paolo continuiamo a incontrarci. È una persona estremamente generosa. Adesso, con “Siccità”, sono tornato nel suo campo visivo artistico. Con altri registi ho lavorato di più. Con Nanni Moretti ho fatto diversi film. E con Paolo Sorrentino ho fatto “The Young Pope” e “The New Pope”, che sono stati un po’ come una stella cometa.

In un certo senso vi eravate già conosciuti in “Polvere di Napoli” di Antonio Capuano.
È stata la sua prima sceneggiatura, quella. E già era chiara una cosa: Sorrentino deve dirigere le cose che scrive; c’è bisogno di lui per le sue storie. Dopo aver letto il copione, avevo sentito qualcosa. Qualcosa di chiaro, di evidente e allo stesso tempo di indecifrabile. C’era come una sospensione in quella sceneggiatura: una bolla di cinema che non c’era ancora in Italia e che aspettava solo di poter venire a galla. In realtà abbiamo fatto anche un altro progetto insieme.

Mi dica.
Anche qui, Sorrentino scriveva, non dirigeva. La regia doveva essere di Michele Placido. L’idea era quella di raccontare un personaggio che, negli anni ‘70, aveva avuto successo come cantante. Siamo venuti a Napoli per fare i provini, e ne abbiamo fatti tantissimi; cercavamo l’attrice per il ruolo della figlia del protagonista. Non si è più fatto, alla fine. Ma secondo me quel film è stato uno dei semi de “L’uomo in più”.

Per “The Young Pope” e “The New Pope”, chiedeva a Sorrentino di avere meno battute. Perché?
Voiello mi ha travolto. Quando ho fatto il provino, e ho letto la prima stesura, ho trovato un personaggio bellissimo ma con poco spazio. Quando sono stato scelto è cambiato; ci sono state altre cose e altre aggiunte. E non c’era abbastanza tempo per imparare tutte queste cose. Ma questo è il metodo di Paolo. L’attore va inserito in un brodo di ansie, di paure, di dolori, di infarti e di sincopi. E poi va tirato fuori. Per lavorare bene, l’attore non deve essere rassicurato.

Ha detto che il set de “Il papà di Giovanna” è stato uno dei più belli della sua carriera.
Pupi Avati viene dalla scuola di Fellini, dei grandi bugiardi: di chi ama sceneggiare le sue menzogne. Sui suoi set, Pupi non fa altro che stare vicino agli attori; è l’unica cosa che sembra interessargli davvero. E poi è una persona spiritosissima. Molto divertente. Sempre pronto a raccontare un aneddoto, ad ascoltarti e a chiederti come stai; sempre pronto a smuovere cose che se le smuovi puzzano ancora di più.

Per esempio?
L’invidia. Nessuno ne parla; tutti fanno finta di niente. Ma dentro hai l’inferno. Non puoi dirlo a nessuno, perché naturalmente te ne vergogni. Ma questo è, secondo me, il grande problema della nostra società. La rabbia che c’è in giro, fondamentalmente, nasce dall’invidia: quella che si prova, e quella che si fa provare.

C’è una scena, in “The Young Pope”, che è stata tagliata. Lei, nei panni del Cardinale Voiello, investito da una cascata d’acqua.
Quando il Napoli ha vinto per la prima volta lo scudetto, moltissime persone hanno festeggiato così: facendosi il bagno nelle fontane della città. Anche Voiello voleva farlo. Ma il suo superiore glielo impedì. E quindi, nella serie, abbiamo girato questo momento: lui che festeggia sotto una cascata la vittoria del Napoli.

Poi però non è stata inserita.
Forse per scaramanzia. Non so: probabilmente la vittoria era nell’aria.

Lei come ha festeggiato lo scudetto?
Sono andato in piazza Duomo, a Milano, e ho fatto due giri nella Galleria. Una cosa di una tristezza enorme.

Si è trasferito nel quartiere Vomero, a Napoli, quando aveva 4 anni.
Prima abitavamo a Rosario di Palazzo, al centro. Non sono mai riuscito ad amare veramente il Vomero. Anche perché, ecco, io mi trovavo nel Vomero brutto, quello della speculazione edilizia. I miei genitori erano attratti dagli ascensori, dai marmi bianchi, dallo spazio e dalla pulizia. Da questo senso di sicurezza, ecco. C’era la volontà di liberarsi dal popolino, come lo chiamavano loro.

Che cosa intendevano?
Il popolo era, chiaramente, una roba seria, bella. Il popolino no: per loro era il volto feroce della città, una minaccia continua. È una cosa con cui la borghesia napoletana non è mai riuscita a convivere. Come una macchia d’olio che si allarga in una pozza d’acqua.

Cosa ha scoperto interpretando Lagioia?
Passare del tempo in una prigione, anche solo un’ora, è un’esperienza che nessun film riuscirà mai a raccontare perfettamente. Il carcere, per chi sta fuori, sembra quasi una cosa rassicurante. E invece è il luogo più insostenibile del mondo. Il carcere è privazione della libertà, certo. Ed è soprattutto espropriazione del tuo tempo: diventa inutile, non serve più.

Lei che rapporto ha con il passare del tempo?
Faccio fatica a vedermi in un periodo lungo. Sono un uomo che vive in un tempo breve. Anche per il mestiere che faccio. Il tempo lungo mi angoscia, e quello breve, invece, mi mette ansia.

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