Ogni film è un lungo viaggio, paragonabile ad una traversata oceanica, durante la quale gli imprevisti sono sempre innumerevoli. Un colossal o un progetto che ha alle spalle una solida produzione e quindi molto denaro, affronta tale traversata con mezzi che qualsiasi cosa accada, si arriverà a destinazione, ovvero alla conclusione del film. Per me con "Sweet Democracy" è stato come affrontare tale traversata oceanica a bordo di una zattera. Nel mio equipaggio ero riuscito a portare a bordo una personalità come Dario Fo e poi Renato Scarpa ed il produttore candidato più volte agli Oscar Donald Ranvaud, ma nonostante ciò, sapevo che avrei dovuto affrontare il mio viaggio su una minuscola imbarcazione e per giunta in un oceano in tempesta!
Una tempesta determinata dalla tematica che avevo scelto di analizzare nel mio film di satira. Del resto lo stesso Dario Fo mi disse che molti non avrebbero amato la mia scelta di averlo nel film. Tutto all'inizio della lavorazione di "Sweet Democracy" faceva presagire seri rischi di non arrivare a destinazione. Avevo una sola risorsa: la mia libertà. Sapevo che la struttura del cinema istituzionale in Italia non avrebbe potuto trattare in un'opera le stesse tematiche del mio film e allo stesso modo, dato che è finanziata dalla politica. Ero consapevole che giocare con le corde del potere avrebbe determinato la fortuna o il fallimento del mio progetto.
Ecco perché dopo il tour in diverse città italiane del mio film "Sweet Democracy" considero l'approdo nel porto di Fanpage.it una tappa vitale della prima traversata oceanica che ho affrontato con il mio lavoro. Dico la prima, perché credo in un cinema in cui la vita di un film debba durare nel tempo. Considero questa opportunità un segnale di coraggio che forse contribuirà, lo spero, a migliorare la posizione dell'Italia per libertà di stampa nel mondo, attualmente classificata da Reporters sans fronières settantasettesima. Sono convinto che un paese che è stato raccontato in passato da giornalisti come Indro Montanelli, Enzo Biagi o Giancarlo Siani, possa e debba ambire ad essere più libero di divulgare anche le più scomode verità, ignorando il politicamente corretto. Una missione che riguarda anche i registi cinematografici, come ci hanno mostrato ormai molti anni fa Elio Petri e Francesco Rosi.
Michele Diomà