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“Tempi moderni”, il geniale film-denuncia di Charlie Chaplin compie 80 anni

Il 5 febbraio 1936, a New York, veniva proiettato per la prima vota il film più impegnato e a sfondo sociale del geniale Charlie Chaplin. L’artista, attraverso il suo alter ego, Charlot, nei panni di un operaio alla catena di montaggio, si scaglia duramente contro la società dei consumi, del mostro capitalistico, colpevole della spersonalizzazione, dell’alienazione e della conseguente ribellione dell’essere umano. Una pellicola che conserva, tuttora, la sua immensa e triste attualità.
A cura di Ciro Brandi
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Il 5 febbraio 1936, a New York, esattamente 80 anni fa, si teneva la première del film più “impegnato” e a sfondo sociale del grande Charlie Chaplin. “Tempi moderni”(“Modern Times”), scritto, diretto, interpretato e anche prodotto dal geniale artista, è una pellicola, allo stesso tempo, realistica e all’avanguardia, che si scaglia duramente contro la società dei consumi, del mostro capitalistico, colpevole della spersonalizzazione, dell’alienazione e della conseguente ribellione dell’essere umano.

L’alienazione della fabbrica e la risalita di Charlot

Chaplin riporta in scena Charlot (per l’ultima volta) nei panni di un operaio di una fabbrica, vittima di un esaurimento nervoso a causa dell’estenuante e alienante lavoro alla catena di montaggio. Qui, l’uomo ha la mansione di stringere i bulloni e viene scelto anche per collaudare una nuova macchina che permette agli operai di mangiare, evitando di fare la pausa. Charlot finisce, addirittura, in ospedale (o meglio, in manicomio) e, una volta guarito, viene arrestato con l’accusa di aver guidato un gruppo di rivoltosi. Una volta libero, conosce Monella, un’orfana con la quale stringe amicizia e, grazie a quell’incontro, decide di cercare un nuovo lavoro. Entrambi vengono assunti in un ristorante, lei come ballerina, lui come cantante, ma sono costretti a scappare a causa di alcuni funzionari che vogliono riportare Monella all’orfanotrofio. Da quel momento, tenteranno di risorgere dalle “sabbie mobili” in cui erano incastrati.

L’ispirazione per il film e il rifiuto del sonoro

Chaplin ebbe l’ispirazione per il film durante la promozione della pellicola “Luci della città”, del 1931, facendosi influenzare anche dalle condizioni di povertà in cui versava l’Europa durante la Grande Depressione del 1929, ma anche da un incontro con il Mahatma Gandhi, in cui quest’ultimo biasimava l’industrializzazione scriteriata e illimitata. L’intento di Chaplin era, inizialmente, quello di farne un film sonoro, ma alla fine optò per il muto, lasciando fuori solo alcune scene con audio, come ad esempio quelle in cui si sentono i rumori delle apparecchiature della fabbrica, l’altoparlante e la parte cantata dove lo stesso Charlot canta il pezzo “Je cherche après Titine” (“Io cerco la Titina”) le cui parole sono totalmente improvvisate, mescolando termini inglesi, italiani e spagnoli. Tutto ciò era volutamente geniale, perchè così facendo, si faceva proprio beffe del sonoro, che nasceva ed era in voga in quel periodo, riservandolo ai momenti più surreali e comici.

La magia farsesca di Chaplin e la trasformazione delle angosce della vita in commedia

Ricorrendo alla sua memorabile magia farsesca, Chaplin trasforma le angosce e l’esaurimento di Charlot in commedia, smorzandone i momenti drammatici e prendendo in giro gli altri personaggi sulla scena, marionette dello stesso sistema. Gli uomini diventano ingranaggi e numeri di un ingranaggio che non conosce sosta, che non li considera, ma che, tuttavia, non riesce a spegnere la voglia di sognare, tra l’altro, cose estremamente semplici come una casa, una moglie e un lavoro “normale”. Contro il grigiore di quella vita, Charlot e Monella (interpretata da Paulette Goddard, giovane attrice che diventerà anche la sua terza moglie) contrappongono la loro speranza, la volontà di non mollare, senza prediche inutili, regalandoci una meravigliosa scena finale, piena d’incoraggiamento e di sprono, in cui Charlot e Monella sono isolati da tutto e tutti e il loro abbraccio ha la forza di mille parole. Il vagabondo, in quel momento, non è più solo nel suo nuovo cammino verso la vita e, allo stesso tempo, ha salvato dalla disperazione un altro essere umano, emblema di tutta la classe operaia che aveva smesso di sognare.

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