At the end of the day – Un giorno senza fine, la recensione
Si tratta di un thriller/horror del 2010, scritto e diretto dal regista italiano Cosimo Alemà, specializzato in videoclip e pubblicità. E’ stato presentato in anteprima alla 31esima edizione del Fantafestival di Roma e al Courmayer Noir in Festival. Anche se si tratta di una produzione interamente italiana, la pellicola è stata girata interamente in inglese e non c’è traccia di attori italiani.
I sette amici protagonisti decidono di trascorrere una giornata giocando a softair in un’area desolata e distante da qualsiasi centro abitato. Monica, una delle ragazze del gruppo, è venuta con sua sorella Lara, una ragazza poco socievole, in procinto di partire per una missione umanitaria. I ragazzi si dividono in due squadre e il gioco ha inizio. Improvvisamente scoprono di non essere soli e gli amici si accorgono che tra gli alberi si nasconde qualcuno con armi vere che ha intenzione di difendere quel luogo ad ogni costo. La morte di uno di loro trasforma tutti gli altri in topi in gabbia. E’ l’inizio di un incubo.
Siamo rimasti piacevolmente colpito da “At The End of the Day”. Come dicevamo all’inizio, si tratta di un prodotto interamente made in Italy, anche se il titolo anglofono potrebbe trarre in inganno. Principalmente, ciò è stato fatto per dare ampio respiro al prodotto e dargli quel sapore internazionale che potrà permettere alla pellicola di varcare in maniera più semplice i confini nazionali. Del resto la Universal Pictures ha deciso di distribuirlo anche in Francia, Gran Bretagna, Scandinavia e Australia.
La sceneggiatura è stata scritta a sei mani dallo stesso regista, insieme a Daniele Persica e Romana Meggiolaro, ed è ricca di spunti veramente ben pensati e ponderati, ben scritta e non lenta o “bucata”, nel senso che non abbiamo trovato dei punti morti o slegati dal contesto principale. Gli attori sono quasi tutti emergenti, non si tratta di volti noti al pubblico o con chissà quale esperienza alle spalle. Addirittura, la protagonista principale Stephanie Chapman-Baker/Lara è alla sua prima esperienza, ma è di una bravura sconcertante. Ciò che c’incurioisce ancora di più, è il fatto che all’inizio del film, una didascalia ci avverte che tutto quello che stiamo per vedere è ispirato a fatti realmente accaduti nel 1992. Alemà non ci dice con esattezza di quale luogo si tratti, nn scende più di tanto nei particolari della vicenda e delle vite di tutti i personaggi, ma il messaggio di fondo è molto forte. Il regista si scaglia contro l’assurdità delle guerre, delle armi usate con estrema facilità contro i nostro simili, difende gli innocenti che si ritrovano all’improvviso ad essere vittime inconsapevoli di una caccia all’uomo assurda in cui non hanno la minima colpa, se non quella di trovarsi nel posto e nel momento sbagliato.
Tutto funziona alla perfezione, dalla regia estremamente attenta ai particolari alla fotografia dai toni rossastri e grigiastri. Il plot molto semplice e lineare segue la falsariga di altri film dello stesso filone come “Un tranquillo week-end di paura”, “Paintball”, Severance”. Molta cura è stata dedicata anche alla colonna sonora (non dimentichiamo che il regista ha diretto più di 200 videoclip) curata dai gruppi sperimentali Soap & Skin, Women in the Woods e Hammock, creatori di musiche adattissime a creare la giusta atmosfera ansiogena e sospesa. Il difetto? Forse l’eccessivo focus su dettagli macabri, in alcune punti, e il fatto che, lo noteranno soprattutto i cinefili, il plot e alcune scene suscitino pericolosi deja vu (Vi dice niente "Non aprite quella porta"?).
Complimenti, comunque, ad Alemà per aver creato un prodotto italiano di fattura pregevole e davvero ben confezionato, anche se, sinceramente, non l’avremmo fatto uscire in un periodo “morto” come questo.. Imparate gente, imparate.
Voto: 7