Freaks out, Gabriele Mainetti e la scena tagliata: “Franz faceva l’amore con Irina davanti a Hitler”
“Thank you for being so not italian” dice Stanis La Rochelle di Boris in un meme che gira sui social con la faccia di Gabriele Mainetti e la locandina del suo Freaks out. Secondo film dopo l'enorme successo internazionale di Lo chiamavano Jeeg Robot, si è presentato sul mercato come un colossal tutto italiano destinato a far parlare di sé. "Mi dicono che è qualcosa di diverso in Italia, è vero, lo è" ha dichiarato il regista ai microfoni di Fanpage.it durante una lunga intervista, spiegando come affronta questa attenzione sul suo cinema coraggioso, pieno di effetti speciali e con budget che alzano l'aspettativa, qualcosa di insolito per chi fa il suo mestiere. Spazio ai retroscena, dai casting per scegliere i singoli attori alla scena tagliata, e poi una finestra sul suo futuro: "Un film horror? Mi piacerebbe".
Hai detto: "Il secondo film è tosto. Soprattutto se al primo hanno voluto bene in tanti". Cosa è successo dopo Lo chiamavano Jeeg Robot?
Dopo Jeeg è successo che ti senti incapace di rifare una cosa così. Mi sono aggrappato alla storia di Freaks out perché era la prima cosa che avevamo scritto dopo Lo chiamavano Jeeg Robot. Tutti che mi volevano far fare Jeeg 2, però io e Nicola Guaglianone, che è l'autore del soggetto di Freaks out e co-sceneggiatore insieme a me del film, abbiamo scelto di tornare un po' all'istinto puro.
Il tuo primo film, in seguito deve essere stato complesso cercare di non disattendere le aspettative del pubblico.
Riguardavo Lo chiamavano Jeeg Robot e ho detto “come ho fatto a fare questa cosa qua, non sono più capace”, non c'ho più questo sguardo. Poi, a un certo punto la paura è svanita. Stavo facendo dei provini e sono scoppiato, la gente ha iniziato ad avere quel timore, si è instaurata quella tensione del regista che ti chiede le cose, perché prima entravo quasi scusandomi. Da lì non so più andato giù.
Ad oggi, escludi la possibilità di girare Lo chiamavano Jeeg Robot 2?
Mai dire mai. Al momento non ne sento proprio la necessità, ogni tanto mi passa in mente qualcosa, però poi dopo se ne va con una certa rapidità perché Lo chiamavano Jeeg Robot ha una sua forza, non vorrei in qualche modo intaccarla. Non mi ricordo di tanti sequel forti, quindi ho anche paura di rovinarlo.
Torniamo a Freaks out. Perché questo titolo?
Freaks out perché l'abbiamo pensato come un film internazionale, per un discorso sensato riguardo al budget. L'idea era divertente, “freak out” vuol dire impazzire in inglese però ci piaceva anche questa parola out accanto a freaks, cioè i freaks al di fuori del loro habitat naturale. Per me è il circo Mezzapiotta, che è descritto come il circo di Zampanò che si squarcia come un grembo materno e lancia i miei Freaks in uno spazio di guerra, difficile, dove il nazismo occupa la città di Roma.
È vero che all'inizio il titolo era in italiano?
Sì, io avevo un'idea che ancora un po' mi brucia. C'è un film di Castellani che si chiama Sotto il sole di Roma, bellissimo, del neorealismo povero. Sotto il sole di Roma non aveva senso, era più bello Il sole di Roma, però giustamente mi hanno detto che sembrava un film solo fatto a Roma e allora Il Sole d'Italia faceva un po' ridere, quindi siamo rimasti con Freaks out.
Nel film c'è tutto il cinema che ti ha cresciuto. Quali sono le citazioni a te più care?
Citazioni ce ne sono diverse, alcune esibite e alcune inconsce. Sono cresciuto con l'immaginario di mio padre, con il quale ogni domenica guardavamo un film, rispettivamente il cinema di Monicelli, 007, Indiana Jones e Sergio Leone. E quello che io faccio con il mio cinema è metterli tutti insieme, che poi stiano bene insieme non lo so, però sicuramente è un tentativo di far fare l'amore a questi immaginari così eterogenei e vedere se uno riesce a produrne uno nuovo.
Cos'altro ne è venuto fuori?
Scene come la classica silhouette sulla luna di Eliot con i suoi amici in bicicletta in ET e altre citazioni figlie di un percorso di studi del cinema. Il film apre con una citazione al padre del cinema fantastico che è Méliès, con Tirabassi che guarda in macchina e invita il pubblico a lasciarsi andare, perché niente è come sembra, e fa la classica magia che Méliès faceva nei suoi corti di cinema muto. Anche come Tarantino ha utilizzato il cinema e ha dimostrato come può modificare la storia, ripensarla. Noi facciamo il sogno di riavvicinarci alla storia nel tentativo di riprodurla ma poi cambiarla, perché vogliamo sognare che quel treno carico di ebrei non arrivi dove purtroppo è arrivato.
Matilde è il nodo che tiene stretto il gruppo. Che potenziale aveva Aurora Giovinazzo ai provini?
Aurora è una campionessa mondiale di danza caraibica, ha una forza impressionate. Questa aspetto mi piaceva molto, però avevo bisogno anche di una fragilità, che era talmente protetta da questa scorza da indurmi a capire quale fosse la via d'accesso. Così in un provino successivo mi sono messo io a darle le battute e ho visto che potenzialità aveva questa ragazza di 15 anni. Mi piaceva fisicamente, aveva un viso molto cinematografico e con quella bombetta mi ricordava un po' Giulietta Masina ne La strada.
Claudio Santamaria è per te l’attore feticcio che Servillo è per Sorrentino?
Questo non lo so, bisognerà capire se mi fanno fare tanti film come Sorrentino (ride, ndr). A me Claudio piace, mi piace come attore, soltanto che quando abbiamo fatto Freaks out e stavo facendo i provini non ero convintissimo di sceglierlo, cioè avevo paura di sedermi nel rapporto che avevamo costruito con Lo chiamavano Jeeg robot. Lui ha intuito subito questa cosa, tant'è che mi ha voluto una corsia preferenziale e mi ha chiesto di fare un provino. Oggi sono contento che me l’abbia chiesto, perché entrambi abbiamo capito che era la cosa giusta.
Cencio all'inizio doveva essere più giovane, un 17enne. Cosa ti sei inventato per avere Pietro Castellitto?
Il ruolo di Cencio era una versione adulta del bambino di Ladri di biciclette, me lo immaginavo un bambino nervoso, un “ciccarolo” che si prendeva le sigarette per terra e se le accendeva, che scherzava con Matilde con un modo infantile. Avevo fatto altri provini, ma volevo qualcuno con un'autoironia, che è molto romana ma anche napoletana. Poi ha una timidezza che è più marcata della mia, ma la comprendevo perfettamente, quindi mi aveva conquistato, già eravamo amici. Pietro tra l’altro ha un romano quasi antico, elegante e non volgare, e questa cosa mi ricordava il cinema che mi piaceva, il cinema di Monicelli, quello di un tempo.
Mario è un nano. Il personaggio richiedeva una bassa statura. Perché?
Mario era pensato come un pinhead all’inizio, però non avrei mai potuto lavorare con un pinhead vero e Giancarlo (Martini, ndr) secondo me nel corpo si porta proprio il titolo di freak. E questa cosa tra l'altro scivola anche nel carattere della persona, lui è talmente alto nel suo modo di stare al mondo che questa cosa l'ha superata alla grande. In particolare, gli infastidiva l’idea di fare il nano stupido, poi si è fidato completamente.
ll Gobbo è Max Mazzotta: geniale Fiabeschi in Paz e attore di straordinario talento. Non pensi che il cinema italiano non sempre se ne sia ricordato?
Lo sai che Enrico Fiabeschi che guarda in macchina è un’intuizione di Max, l'ha fatta lui e a Renato De Maria è piaciuto talmente tanto che l’hanno tenuta….(sorride, ndr). La lontananza dal mercato è stata una scelta di Max, lui non ha voluto fare un certo tipo di cinema o televisione. Vive a Cosenza, gestisce una scuola di teatro, lì è stato per 10 anni l'assistente di Strehler, ha una concezione talmente alta del teatro che non vuole perderla per andare a fare determinate cose. Se voleva fare l'attore di fiction sarebbe venuto a vivere a Roma, ma non gliene non gliene frega niente.
Non ho mai pensato alle fiction, ma a un certo tipo di cinema sì.
Forse purtroppo alla gente un po' glielo devi ricordare, però personalmente quando ho pensato al Gobbo, che è un personaggio mitico nella storia della criminalità e anche un po' dell'evasione a Roma, tutti sanno che era calabrese e il salto è stato immediato.
Il villain Franz Rogowski, come Marinelli, coniuga malvagità e divismo. Su Facebook hai rivelato di aver dovuto tagliare una scena con lui che ti piaceva molto. Qual era?
È una scena d'amore che fa con Irina, che si consuma di fronte la gigantografia del suo padre putativo in quel momento, cioè Hitler, una scena assurda. L’ho tagliata perché rallentava il film e noi di Franz avevamo già capito molto, però rosico da morì perché era folle totale: a un certo punto, lui prende il carboncino e le fa due baffetti, poi la inizia a baciare tutta e fanno l'amore.
Con Jeeg ci hai iniziato a un cinema “poco italiano” e qui ne vediamo l’evoluzione. Che regista senti di essere in Italia?
Su Instagram e su Twitter ho visto quell'immagine di Stanis La Rochelle che dice “Thank you for Being so not italian” e poi Gabriele Mainetti in Freaks out, mi fa molto ridere. Boh, non lo so. Sento un sacco di ringraziamenti da alcune persone che fanno il mio lavoro. In Italia si sentono quasi tutti i registi, tutti capaci di dire quanto un film potesse essere fatto meglio. Il supporto del settore è fighissimo, però per me conta ciò che dice la gente fuori la sala, quando li sento commentare “Finalmente, ho visto l'Italia riuscire a fare qualcosa di diverso”. Ecco, quello per me è il premio più grande. Sto raccogliendo feedback da parte del pubblico, poi capirò che tipo di regista sono.
Freaks out è rimasto fermo ai box quasi tre anni. C'è smarrimento oggi?
Vale per tutto il cinema, se pensi il cinema americano sta a meno 30%, quello italiano sta a meno 50%. Il pubblico si convince di più a spendere 8,50€ per qualcosa che è costato forse 200 milioni e dà meno fiducia al cinema italiano e questo mi dispiace, perché al di là di Freaks Out e Lo chiamavano Jeeg robot c’è tanto cinema italiano meraviglioso che meriterebbe di più.
Le piattaforme lo hanno corteggiato molto, ma tu non hai ceduto. Sarai mai un regista per lo streaming?
Non sono così intransigente, cioè per me la piattaforma offre dei modelli audiovisivi validissimi. Non sono un appassionato tale da entrare in binging per una serie, mi annoio relativamente presto perché ho una passione per il tempo giusto, se vuoi anche breve, del film, però bisogna capire che tipo di prodotto hai davanti. Ho visto Extraction su Netflix e sono sicuro che sul grande schermo avrebbe reso di più, come lo ha fatto Roma di Cuaron.
Prima o poi farai un horror. Forse più prima che poi. Potrebbe essere il tuo prossimo film?
Ci sto pensando. Io lavoro sull’ibridazione dei generi, quindi mi piacerebbe addentrarmi nel grande racconto degli elementi orrorifici, usare il genere come pretesto per raccontare l'uomo. Guardo a maestri come Steven Spielberg e Stanley Kubrick che ci sono avvicinati all’horror perché volevano raccontare le contraddizioni dell'essere umano, la sua solitudine come in Shining, il senso di isolamento che Kubrick probabilmente percepiva dentro se stesso quando si rinchiudeva a pensare a quale viaggio far fare ai suoi spettatori. Un horror inteso così sì e spero di farlo presto sinceramente.