Gabriele Muccino: “Urla e lacrime nel mio cinema, ma siamo tutti mucciniani”
La vita addosso – io, il cinema e tutto il resto è uscito il 12 ottobre ed è la prima autobiografia di Gabriele Muccino. Edito da Utet, il libro si propone di tracciare una linea nella vita del regista e di unire i puntini che hanno tenuto insieme il suo percorso professionale e umano. I primi passi nel cinema, il primo film quasi ignorato (Ecco fatto, 1998), l'esplosione del successo con L'ultimo bacio e poi la vetrina mondiale con La ricerca della felicità, la parentesi americana che lo ha cambiato nel profondo, non solo in bene. Il ritorno in Italia, la scoperta di una nuova natura artistica, la rottura con il fratello Silvio, la ripartenza con film che rappresentassero queste consapevolezze, fino alla produzione della prima serie tv tratta da A casa tutti bene.
Non si risparmia Muccino in queste pagine, si racconta attraverso il dialogo con il giornalista Gabriele Niola e parla di come la passione per il cinema lo abbia salvato sin da quando la balbuzie gli impediva di sentirsi in armonia con il mondo esterno. "I detrattori mi pungolavano sull'essere troppo mucciniano, su questo impeto che non riuscivo a placare, ma a ben vedere in Scene da un matrimonio si menano come mai nei miei film. Anche Bergman era mucciniano, lo siamo tutti" dice il regista a Fanpage.it, nel corso di questa lunga intervista.
Un'autobiografia a 54 anni, perché proprio adesso?
Io volevo esistere attraverso il cinema perché non ero riuscito a esistere nella società degli uomini quando ero adolescente perché ero timido, balbettavo e non riuscivo a orientarmi nelle relazioni umane. Ero rimasto spesso fuori dai giochi ed ero un cinefilo incallito che in realtà pensava di diventare veterinario. Un giorno a 18 anni ebbi una rivelazione durante una recita scolastica, che mi fece capire che avrei dovuto fare il regista per raccontare veramente chi ero.
E lo ha capito anche il pubblico con L'ultimo bacio.
Il mio esordio è stato molto solido, anche se nessuno ha visto il mio primo film Ecco Fatto perché era destinato a essere un tv movie. Questo mi mise il carburante per il mio secondo film, Come te nessuno mai, che arrivò a Venezia dove fu un tripudio, lì diventai la nuova promessa del cinema ed ebbi lo slancio verso L’ultimo bacio. Un’esplosione assoluta di consensi e di dissensi, che furono la fortuna del film. Fu veramente un fenomeno di costume enorme e anche un punto di definizione del cinema italiano, che era rimasto dormiente e anche decadente per una ventina di anni.
In pochi sanno che L'ultimo bacio ti ha permesso di fare La ricerca della felicità, nel senso che è stato il film che ha fatto innamorare Will Smith.
Vero. La storia è ancora più surreale. Parte da questo provino che feci con Al Pacino per un film che dovevo fare con lui, tratto dal libro L’animale morente di Philip Roth. Tra le attrici che vedemmo ai provini c’erano Penelope Cruz, Hilary Swank, Rosario Dawson ed Eva Mendes, la meno quotata per la parte, che nel frattempo era andata a fare Hitch con Will Smith. Lei, che era rimasta colpita da L’ultimo bacio, lo fece vedere a Will che, quando arrivò in Italia in promozione, invece di parlare di Hitch parlò del mio film alla stampa.
Ti mettesti in contatto e nacque la voglia di fare un film insieme, ma l'accoglienza in America fu piuttosto tiepida, giusto?
La Columbia quando li incontrai era molto indecisa perché ero un regista che parlava male inglese e non aveva mai fatto un film in inglese e Will Smith in quel momento storico era una movie star gigantesca. Alla fine lui fu talmente tenace che impose alla Columbia di prendere me come regista, caso contrario sarebbe andato alla Warner. La Columbia, che aveva già fatto con lui dei blockbuster come Men in black e Bad Boys, si fece il segno della croce e disse ok, prendiamo questo qua. Il resto lo sappiamo, La ricerca della Felicità fu un successo mondiale.
La ricerca della felicità non è stato solo il tuo passaporto artistico per l'America, ma anche quello di Will Smith in un cinema più impegnato. Vi siete scambiati un favore?
È innegabile, ci fu scambio fortissimo tra noi, artistico ma anche umano, che fondamentalmente definì la mia carriera ma anche la sua. Ad oggi, lui in America viene fermato particolarmente per La ricerca della felicità, è il film che lo ha reso indimenticabile.
Che rapporto avete oggi?
Il rapporto che ho con Will oggi, al di là delle mail scherzose, degli auguri di compleanno e Natale, dei complimenti e delle critiche alle cose che fa, perché anche sulle cose brutte sono implacabile (ride, ndr), è legato all’aver fatto un film che è rimasto nella memoria. Noi siamo i film che vediamo e La ricerca della felicità è riuscita a trasformare molte coscienze.
Parli di un Will Smith al tempo piuttosto solitario, probabilmente per una crisi in corso con la moglie Jada Pinkett Smith. Anni dopo verrà fuori la verità sulla separazione in casa e la scelta di vivere un matrimonio poliamoroso. Ne hai mai parlato con lui?
No, ma ci fu un momento in cui andai a casa sua, era lo stesso giorno in cui inspiegabilmente aveva detto di no a Inception di Nolan, e camminammo nel parco, ci sedemmo su un tronco e lui mi disse: “Sono annoiato alle lacrime”, che è una frase fortissima, “I’m bored to tears”, mi spaventò molto. La noia e la solitudine che vivono le movie star è inenarrabile perché sono circondati da Yes man che li devono servire e riverire trasformandoli in imperatori, ai quali nessuno oserà dire le cose come stanno. La triste verità è che il successo non crea sicurezza ma paura della perdita del successo, quindi insicurezza.
Un Muccino prima e dopo America, ma cosa accade a Gabriele quando torna in Italia?
Mi devo ricostruire. Quando tornai in Italia avevo perso il senso assoluto di chi erano i nuovi attori, i nuovi registi, le mode, come la politica fosse cambiata da come l’avevo vista da lontano. Il Vaffa Day lo vissi come una cosa aliena perché venivo da un mondo in cui se dicevi Fuck Off o Fuck in un film più di una volta venivi censurato.
Qual è stata la chiave per rientrare a casa?
Per raccontare l’Italia capisco che la famiglia è il punto che non ha tempo, il centro di tutto, per cui raccontarla in A casa tutti bene è stato illuminante perché non dovevo fare i conti con il Paese politico. Inoltre, il film si avvalse anche di una dimensione nichilista che probabilmente avevo bisogno di raccontare. Con quel successo capii che il pubblico che avevo esisteva ancora, quindi potevo fare questo mestiere come lo avevo fatto fino a Sette anime compreso.
E oggi cosa sta accadendo al cinema, che destino hanno i film in uscita?
Ill mondo del cinema non si è mai fermato, ha avuto una forza reattiva sorprendente. Noi cineasti abbiamo capito che attraverso l’unione potevamo fare qualcosa che era più forte dell’antagonismo di cui ci eravamo alimentati per tanto tempo. Oggi mi piace credere che il cinema come punto di aggregazione tornerà molto forte. Sono convinto che le sale ripartiranno con dei film importanti, mentre i film più piccoli troveranno spazio sulle piattaforme.
Due pagine su oltre trecento sono dedicate alla rottura con tuo fratello Silvio. Ne hai parlato solo ora perché ti senti più risolto?
Io ho sofferto moltissimo, mi è stato staccato un organo perché mio fratello è nato quando avevo 15 anni e gli ho fatto da padre nonostante nostro padre esistesse e fosse ben presente. Questo rapporto così importante, che poi ha portato addirittura a scrivere un film insieme, che lui interpretasse (Come te nessuno mai, ndr), e successivamente a fare un altro film che è Ricordati di me, si è inserito in un momento di grande complicità e slancio. Ci fu però una cosa che ci dicemmo e non l’ho raccontata nemmeno nel libro.
Cosa?
Gli dissi che gli attori spesso perdono l’orientamento, perché è un mestiere complicato che ti sottopone a giudizio continuo, quindi gli proposi un patto: se uno dei due a un certo punto avesse perso la lucidità, l’altro lo avrebbe dovuto salvare. E io quel patto ho cercato di mantenerlo fino alla fine, ho fatto di tutto per recuperarlo e riportarlo da me, dove avrebbe potuto essere al sicuro.
E lui?
Lui ha rifiutato per motivi che sono onestamente oscuri e non si è allontanato solo da me, ma da tutti quelli che gli volevano bene: dalla famiglia al lavoro, dai vari De Laurentis, Verdone, Veronesi, e dagli amici storici come Matteo Rovere. È successo qualcosa che ci ha fatto interrogare per anni, però poi si sviluppa un anticorpo che è quello dell’elaborazione del lutto.
Un lutto possibile?
Quando si è morti veramente, l’elaborazione dura anche meno, quando invece il morto è un vivente e non sai nemmeno dove abita è ancora più doloroso. Questo lutto l’ho elaborato a tal punto da non ammirare più mio fratello come lo ammiravo fortemente prima, da non stimarlo e non conoscerlo più perché non so chi sia dopo 14 anni. Solo così, da qualche anno ho smesso di soffrire.
Torniamo alla sfera professionale. Polemiche con i David, un tweet piuttosto duro in cui te ne chiami fuori. Ti consideri un regista scomodo?
Non sono scomodo, sono destabilizzante perché nessuno è riuscito a fare quello che ho fatto. L'ultimo bacio è stato un film di rottura, perché da Pietro Germi in poi si era totalmente interrotta quella grammatica. In Italia siamo più verbosi ed emotivi rispetto ad altre culture e in quel film non ho mai cercato di attenuare questo impeto, questo Sturm und Drang, questa voglia di rompere e di fuggire, di urlare e di piangere, che era stato anche un motivo per pungolarmi da parte dei detrattori perché, appunto, ero troppo ‘mucciniano’.
Una critica fastidiosa?
No, è il motivo per cui ho fatto cinema, ovvero manifestare le emozioni che non sapevo e non so ancora implodere, portandole sullo schermo. Questo eccesso di emotività nel vivere ha incontrato un pubblico perché evidentemente siamo tutti più simili e mucciniani di quanto noi stessi immaginiamo.
E, sfogliando la storia del cinema, sembra che tu sia in ottima compagnia.
Beh, l'altra sera in Scene da un matrimonio ho visto che i protagonisti dopo un litigio furibondo si menano come mai si sono menati in un mio film. Ho pensato che i mucciniani sono anche Ingmar Bergman, è l’animo umano che ha un istinto primario di sopraffazione che lo porta al conflitto.
Tanti film su relazioni interrotte e disastri familiari, tant'è che auspichi una nuova fase produttiva. Un biopic?
Avrei tanto voluto fare quello su Mike Tyson, ma lo hanno già fatto con Jamie Foxx.
Hai parlato di Mike Bongiorno come di un portafortuna per il tuo approdo in America, ne hai uno per il libro?
Il mio portafortuna è essere qui a raccontarmi e scoprirmi da solo. Ho fatto questo viaggio che mi sembra affine a un viaggio omerico, perché non c’era la maga circe con i proci, ma c’erano ostilità, amici e finti amici, equivoci, incomprensioni, famiglie che scoppiavano, c’era di tutto dentro in questo mio fare il cinema. Nel mettere in scena tutta questa emotività che mi ha accompagnato nella vita ho anche risolto i dolori e i nodi che si erano addensati, complicando spiritualmente il mio percorso. Posso dire che il cinema mi ha salvato la vita, questo libro è talmente sorprendente e unico che mi sento un privilegiato. Privilegiato nell'aver vissuto.