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Il tempo che ci rimane: Elia Suleiman racconta la Palestina

Arriva in sala, con un anno di ritardo, Il tempo che ci rimane, il nuovo film del sorprendete regista palestinese Elia Suleiman: cinema puro che guarda alla realtà in modo diverso.
A cura di Emanuele Rauco
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Elia Suleiman, regista e interprete del Tempo che ci rimane

Il conflitto mediorientale, l’ormai decennale lotta tra Palestina e Israele (dove c'è stato un assalto ai botteghini per il Nabucco di Verdi)  per lo stanziamento lungo la Cisgiordania, è uno degli argomenti centrali, anzi l’argomento per eccellenza di tutto il cinema dell’area o limitrofo. Quello che fa di Elia Suleiman uno dei più originali osservatori e cantori della realtà del suo paese, la Palestina appunto, è la forza e la teoria del suo sguardo, lunare comicamente atroce anche in questo suo terzo lungometraggio. Quattro blocchi, più che episodi, che seguono il percorso da bambino (1948) ad adulto di Elia, della vita privata e politica della sua famiglia, del mondo intorno a lui che cambia sempre più in guerra, sempre più isolato.

Suleiman sceneggia e interpreta, oltre a dirigerla, questa sorta di autobiografia storica (presentata a Cannes l'anno scorso, dove vinse il regista filosofo Haneke), che venata di umorismo lunare dimostra un modo efficace e creativo di fare cinema politico e d’autore anche in un momento storico in cui pare che questo sia impossibile. Quello che fa Suleiman è qualcosa di avvicinabile a un concetto, vaghissimo e forse stupido, di cinema puro in cui non è il racconto o la tesi, ma la costruzione e la creazioni delle immagini, a diventare sovversiva: in un mondo in cui l’assurdità della guerra, di quella guerra in particolare, può essere raccontato solo con uno stile “assurdo”, il regista diventa mero spettatore (la prima inquadratura è in soggettiva, il regista è la macchina da presa) che attraversa i suoi luoghi a volte irriconoscibili senza parlare, solo spalancando gli occhi.

Così il coro si sovrappone all’esercito, una barella si sposta dalla polizia ai medici (il senso di una guerra in una sola inquadratura), le esecuzioni riprese come gag, la modernità s’impossessa impietosa, inquadratura dopo inquadratura, della Palestina, fino a un commosso finale che è un saluto al passato e uno stupito benvenuto al presente. L’umorismo di Suleiman è paradossale e lancinante (il salto con l’asta oltre il muro israeliano) e la costruzione del film è di grande coerenza nel gestire il rapporto filmico tra parola e silenzio; senza linee narrative o cronologiche esplicite, l’unico collante di Suleiman è stilistico e l’uso teorico che il regista fa di figure come il fuoricampo e il controcampo, il campo lungo e medio, ma anche la reiterazione dei gesti mettono alla luce la straordinaria forza visionaria di un autore. Che a metà strada tra l’impassibilità di Buster Keaton (il comico stodico "rivale" di Charlie Chaplin) e la curiosità fenomenologia di Jacques Tati, attraversa il suo film e lo guarda affascinato e straniato: esattamente come lo spettatore in sala.

Emanuele Rauco

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