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Omosessualità e nazismo in Brotherhood, vincitore del Festival di Roma

Esce nelle sale il film di Nicolò Donato che racconta l’amore gay tra le file dei neo-nazisti danesi. Premi e polemiche.
A cura di Emanuele Rauco
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Una scena tesa di Brotherhood

Il sottobosco nazista e di estrema destra sono stati trattati raramente dal cinema di finzione e di solito con toni predicatori, in drammi sociali e civili come American History X con Edward Norton (ora al lavoro con De Niro su Stone), quindi spiazza e sorprende il film di Nicolò Donato, regista italo-danese al primo film per il cinema, che cerca di raccontare aspetti erotici e sensuali di quell’oscuro mondo. Un ragazzo si avvicina quasi per caso a un gruppo militante neo-nazista, critico ma affascinato dal loro modo di vivere e dalle sfumature della loro ideologia; per l’iniziazione viene affiancato a Jimmy, uno dei membri anziani. Il loro rapporto, presto, si trasformerà in qualcosa di estremamente passionale.

Un melodramma tenero e violento a un tempo, una sorta di Brokeback Nazis – come è stato ribattezzato dalla stampa al Festival di Roma (che recentemente ha ospitato lezioni di cinema, tra cui quella di Isabella Ragonese), dove ha vinto il Marc’Aurelio d’oro – che fonde il racconto emotivo con un interessante sguardo indagatorio proprio sulle correnti d’estrema destra. Infatti il vero punto forte del film sta nel modo in cui il regista analizza le società di quel tipo, fondata ovviamente sull’ideologia e la dottrina politica, ma anche su aspetti meno conosciuti del nazismo come il naturalismo di tipo pagano e la dedizione all’alimentazione biologica, rendendo l’omosessualità la conseguenza esplicita di una latenza fatta di continui corpo a corpo, sudore, bisogno fisico di un contatto – indicativamente violento – con l’altro.

Nicolò Donato dimostra già una mano e uno sguardo non banali nel creare una tensione psicologica e sessuale culminante con le intense scene di sesso. Forse la sceneggiatura cede a volte nel manicheo e nel patetismo da melodramma hollywoodiana, ma la macchina a mano, tanto nervosa da sforare a volte nel fuori fuoco, la misura narrativa del regista e il tono intelligente con cui il cast rende personaggi non sempre facili lo rendono un film degno del primo premio.

Emanuele Rauco

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