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“The Hunter” – la recensione

Il regista Rafi Pitts ci offre un ritratto drammatico e doloroso della vita di Ali Alavi, sullo sfondo di Teheran, tra politica, sentimento e follia.
A cura di Ciro Brandi
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the hunter

Il film è stato presentato all’ultimo Torino Film Festival e candidato all’Orso D’Oro alla 66esima edizione del Festival di Berlino. Il regista Rafi Pitts, per questa pellicola, ha tratto ispirazione dal racconto “Gileh Mard” (“L’uomo di Gilan”) dello scrittore e politico iraniano Bozorg Alavi, pubblicato nel 1952. Alavi è stato il fondatore del Partito Comunista Tudeh e ciò lo costrinse a vivere in esilio in Germania fino al 1979.

La cosa che colpisce di più, è che nel ruolo del protagonista Ali Alavi, troviamo lo stesso Rafi Pitts che, armato di telecamera, si aggira, appunto, come un cacciatore nell’ambiente circostante, asettico e rigido.

È senza dubbio un film estremamente drammatico, la tematica non da spazio a momenti leggeri. Ali Alavi è infatti un ex-detenuto. Appena esce di prigione cerca di organizzarsi come può col lavoro di custode notturno e la sua famiglia, la moglie Sara e la figlioletta di sei anni. Nei pochissimi momenti liberi si dedica alla caccia, il suo hobby preferito. Tutto sembra tranquillo nella sua Teheran, ma un giorno, tornando a casa, scopre che la moglie è rimasta uccisa durante uno scontro tra manifestanti e forze dell’ordine, e di sua figlia non ci sono notizie. In preda alla follia, Ali si rifugia su una piccola collina che affaccia sull’autostrada, e da lì spara ed uccide due poliziotti. Inizia a quel punto la sua fuga disperata nella foresta, da cacciatore diventa preda.

Pitts è veramente eccellente nel ruolo di Ali Alavi, perfettamente nella parte. La sceneggiatura è scarna, sono le immagini a parlare, che ci danno un fortissimo senso di ansia sotterranea, instabilità, senso di inadeguatezza. Il film si apre con una foto del 1980 di Manoocher Deghati che raffigura i Pasdaran, il Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica, durante il primo anniversario della rivoluzione iraniana, proprio per farci capire che non è cambiato nulla, tutto è perduto, non c’è futuro o speranza. Solo oppressione.

È un film non semplice, di grande impatto visivo ed emotivo, soprattutto nella seconda parte. Può facilmente essere considerato di “nicchia” per le tematiche, l’ambientazione e il ritmo cadenzato e quasi senza dialoghi, ma credo che lo scopo primario del regista fosse quello di far conoscere al mondo, per l’ennesima volta, la drammatica realtà della vita in Iran, e non fare della pellicola un mero blockbuster.

Voto: 6

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