“12 anni schiavo”, la parabola infernale di Solomon destinata all’Oscar (RECENSIONE)
C’è un unico aggettivo per definire la pellicola di cui tutto il mondo parla e che ha appena ricevuto il Golden Globe come Miglior film drammatico: devastante. “12 anni schiavo”, ultimo capolavoro del regista londinese Steve McQueen, arriva dopo altre due perle come “Hunger” (2008) e “Shame”(2011), entrambi col suo attore feticcio, Michael Fassbender. In entrambi i film, il regista si è sempre soffermato sulla sofferenza dell’uomo – soprattutto fisica e poi mentale – ma non aveva mai raggiunto il climax di dolore che troviamo in “12 anni schiavo”. La lunga parabola che porta Solomon Northup (Chiwetel Ejiofor), un uomo di colore, sposato e padre di due figli, violinista e cittadino della contea di Saratoga (siamo nell’America del 1841) dalla condizione di uomo libero a schiavo per un possidente di New Orleans, è come essere rinchiuso in un pozzo al quale è stato messo anche un pesante coperchio, dal quale non passa alcun spiraglio di luce, se non quando viene portato nelle piantagioni. Solomon viene privato perfino della sua identità e del suo nome, diventando Platt (si, come i deportati dei campi di concentramento, ai quali veniva tatuato un numero sul braccio) ed è costretto a subire qualsiasi forma di abusi, maltrattamenti e umiliazioni.
Sono proprio le scene di violenza che devastano lo spettatore. Le frustate, i colpi sulla schiena con pezzi di legno, la tentata impiccagione ai danni di Solomon e gli stupri subiti dalle donne ai quali l’uomo doveva assistere senza poter fare assolutamente nulla. Strazianti sono anche i corpi mutilati degli altri schiavi, l’odio che gli altri nella sua stessa condizione nutrono per lui – schiavo modello e dignitoso – i corpi nudi che si lavano nei cortili dei possidenti, in attesa di essere venduti al miglior offerente. McQueen è straordinario nel montare la storia di Salomon alternando scene della sua misera condizione di schiavo, con quella del suo recente passato. L’uomo, adesso, è costretto a suonare il violino per il piacere dei suoi padroni, imparando a mettere da parte il coraggio e la forza di volontà per sopravvivere, ad umiliarsi per non essere ammazzato.
Il vortice di torture e umiliazioni inizia con Mr. William Ford (Benedict Cumberbatch), che apprezza veramente le doti di Solomon, ma quando quest’ultimo si scontrerà col suo scagnozzo John Tibeats (un’impressionante Paul Dano), allora sarà venduto al folle Edwin Epps (Michael Fassbender) – un vero e proprio essere demoniaco – che porterà Solomon/Platt dritto all’inferno. La bellezza della natura circostante, incorniciata dalle sensazionali musiche di Hans Zimmer, si scontrerà con la povertà interiore dei dannati innocenti impiegati nella piantagione di cotone, in un contrasto talmente forte da perdere il fiato (stupenda la fotografia di Sean Bobbitt). Anche la natura diventa un personaggio del film e non può fare nulla per salvarli, è spettatrice immobile e stupenda dei soprusi che si consumano al suo cospetto.Proprio come Solomon, che non potrà fare nulla per salvare la giovane Patsey (Lupita Nyong’o) dal suo crudele destino, usata come capro espiatorio della gelosia della moglie di Epps (Sarah Paulson) accecata dall’ira e dall’odio. L’incontro con l’angelo abolizionista Samuel Bass (Brad Pitt) riuscirà a risanare le ali di Salomon e a portarlo via da Epps, dandogli così l’opportunità d’intraprendere la sua (inutile) battaglia legale, diventare un fervente attivista per la liberazione degli schiavi e di scrivere un libro, nel 1853, da cui è tratto il film.
La forza dell’attore Chiwetel Ejiofor è tutta nei suoi occhi. L’invidiabile capacità di esprimere stanchezza, dolore, felicità, rabbia e paura di questo meraviglioso attore ha dell’incredibile. Pur essendo non molto noto in Italia – ma neanche ad Hollywood, anche se ha preso parte a film di successo come “Inside Man”, “American Gangster” e “2012” – Ejiofor catalizza l’attenzione degli spettatori sulla sua storia dall’inizio alla fine, anche se i Golden Globe non l'hanno premiato. I lunghi primi piani, la sua voglia di sopravvivere per tornare a casa dalla moglie e dai figli, la sua spaventosa forza interiore, i silenzi e i suoi respiri affannosi durante le scene più pesanti dal punto di vista emozionale, ci portano (con molte, moltissime lacrime) verso un finale che arriva forse troppo velocemente, ma che ci rincuora, come se fossimo lì con lui in quell’emozionante momento, scrollandoci di dosso tutta l’angoscia accumulata durante la proiezione.
Naturalmente, l’intento di McQueen non è quello di seguire la “moda dello schiavismo” al cinema, seguendo la scia di “Django Unchained”, ma quello di farci capire che l’arma principale con la quale il potere – dato in mano alle persone sbagliate – può piegare la libertà individuale è la violenza, anche se questa non può distruggere la forza interiore e gli ideali fondamentali della vita degli uomini (famiglia, amicizia, amore, coraggio, altruismo e tanti altri). Sono passati ben 173 anni dal 1841, ma i temi trattati sono sempre tremendamente attuali. Le atrocità continuano, le disuguaglianze persistono, le fruste sono state sostituite da armi tristemente all’avanguardia e oggi, come allora, il mondo “civilizzato”, bianco o nero che sia, resta a guardare.
Il 16 gennaio ci saranno le tanto attese nomination agli Oscar 2014 e, quasi sicuramente, “12 anni schiavo” porterà a casa una o più statuette, mentre la pellicola – risolta la querelle legata ai poster italiani tacciati di razzismo – sarà distribuita nelle nostre sale a partire dal 20 febbraio, appena dieci giorni prima della proclamazione del film dell’anno. Impossibile perderlo.