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“Babadook”, l’horror perfetto che attendevamo da anni

La regista australiana Jennifer Kent ha conquistato critica e pubblico di tutto il mondo con questo mix perfetto di horror e thriller psicologico, un viaggio onirico cupo e angosciante nelle proprie paure. E se il Babadook fosse solo una proiezione mentale della protagonista?
A cura di Ciro Brandi
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Era il film più atteso di quest’estate horror e non ha deluso le aspettative. “Babadook”, esordio alla regia dell’australiana Jennifer Kent, ha conquistato critica e pubblico di mezzo mondo, portando a casa svariati premi, tra cui l’Empire Awards 2015 come Miglior Horror. Tuttavia, al di là delle onorificenze, si può dire, decisamente, che “Babadook” è l’horror perfetto che, negli ultimi anni segnati da decine di “found footage” tutti, più o meno uguali, rappresenta quella boccata d’aria che attendevamo da anni.  Forse non tutti sanno che il film è la trasposizione cinematografica di “Monster”, un corto che la stessa regista ha girato 10 anni fa e che fu sommerso da critiche positive e awards, anche se, facendone un lungometraggio, la Kent ha davvero superato se stessa. Sin da subito, ci si accorge che non si tratta del solito film del terrore. La storia di Amelia Vanek, una giovane vedova che ha perso il marito in un tragico incidente mentre questi la portava in ospedale a partorire il figlio Samuel, sembra una sorta di dramma familiare arricchito dalla (successiva) componente horror data dal ritrovamento del “libro maledetto”. La lettura di quella storia per bambini, dell’Uomo Nero, del pericolo nascosto nel buio, la lotta per salvare suo figlio, il suo “cambiamento”, sembrano tutte caratteristiche banali e già viste. Ma in “Babadook” nulla è lasciato al caso o dato per scontato.

Addio agli stereotipi usurati

La regista si allontana, prima di tutto da tutti gli stereotipi horror usurati e vecchi come le impennate sonore per far saltare lo spettatore, il sangue a fiumi, le urla improvvise, i mostri improbabili e quasi demenziali. La Kent ci porta dentro la paura, dentro la mente instabile della protagonista, tanto da farci quasi credere che tutto quello che sta accadendo ad Amelia – interpretata da una formidabile Essie Davis – sia solo frutto della sua depressione, della sua immensa solitudine e dei fantasmi interiori che la attanagliano. Il piccolo Samuel (Noah Wiseman) è la proiezione “materiale” di tutte le sue angosce mentali: costruisce armi rudimentali, trappole per i mostri, ha atteggiamenti aggressivi e non ha amici. Naturalmente, anche se nel film non è detto palesemente, Amelia lo ritiene la causa della morte del suo amato marito, ma non può fare a meno di essere esageratamente apprensiva.

Babadook: solo una proiezione mentale?

Man mano, la regista ci porta nel mondo cupo e fatto solo di colori spenti di Amelia e Samuel. Dopo aver invocato involontariamente il Babadook, tutto prende una piega diversa, la lentezza iniziale lascia spazio al dramma psicologico vero e proprio, interiore ed esteriore. Le ombre sono nascoste nell’armadio, sotto il letto, nel buio, sono sospese sul soffitto, ma nulla è mai mostrato per intero, le paure restano tali, non si rivelano, per questo lo spettatore è portato a credere che il Babadook, in realtà, non esiste, che si tratta solo di un maledetto incubo di un bambino disadattato e di una mamma in preda alla follia, emarginati dal resto del mondo. L’horror si trasforma in thriller psicologico, un viaggio onirico sfocato e proteso verso un tunnel ad imbuto, in cui i due sembrano destinati a sprofondare, al di là della minaccia dell’Uomo Nero.

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La convivenza con le proprie paure

Senza voler spoilerare troppo, e rovinavi la visione del film, si può dire che solo nel finale i nodi verranno al pettine, in modo originale e assolutamente non prevedibile, con un forte messaggio morale. Amelia e Samuel sono, senza alcun dubbio, persone sofferenti, vittime del loro passato e prigionieri di un presente che li ha chiusi a chiave in una casa senza luce, ma loro, come tutti noi, impareranno a convivere con le angosce e le paure perché, come tutte le altre esperienze, fanno parte del nostro ciclo vitale e, per quanto possiamo combatterle, alla fine vanno assorbite e tenuto in un angolo, ben nascoste, affinchè non tornino ad assalirci.

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