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“E.T. – L’extraterrestre”, 35 anni fa usciva il cult con l’alieno più amato del cinema

La première di “E.T. – L’extraterrestre” si teneva a Los Angeles il 10 giugno 1982. Il film è uno dei più intimi di Spielberg perché nato dal suo senso di solitudine in un particolare periodo della sua vita, ma forse non sapeva che sarebbe diventato un cult immortale basato sui sentimenti universali più puri e con un personaggio unico nel suo genere.
A cura di Ciro Brandi
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E’ il cult fantasy per antonomasia e uno dei capolavori assoluti e più personali di Steven Spielberg. La première di “E.T. – L’extraterrestre” si teneva esattamente 35 anni fa, il 10 giugno 1982, a Los Angeles, per approdare poi in tutti i cinema degli Stati Uniti, il giorno dopo.  La storia è nota a tutti. Un extraterrestre viene abbandonato sulla Terra dai suoi simili, che si trovano costretti a ripartire in tutta fretta, dopo un atterraggio in California. Gli umani iniziano a dargli la caccia, ma un gruppo di bambini, capitanato da Elliot (Henry Thomas), riesce a salvarlo e nasconderlo. L’alieno viene ribattezzato E.T. e subito diventa il più grande amico dei piccoli salvatori. Ma la nostalgia di casa avrà il sopravvento e saranno proprio i piccoli umani a permettergli di sfuggire ai militari e rimettersi in contatti con i suoi compagni.

Un cult che scava nei sentimenti umani più puri

Quando “E.T. – L’extraterrestre” è uscito nelle sale, Steven Spielberg era già un pezzo da novanta del cinema mondiale, grazie a pellicole come “Lo squalo”(1975), “Incontri ravvicinati del terzo tipo”(1977) e “I predatori dell’arca perduta”(1981).  Tutti film che hanno fatto incetta di Oscar e altri premi in giro per il mondo. Eppure, “E.T.” rappresenta un tassello totalmente diverso nel mosaico della sua sterminata carriera, perché più intimo e personale. Il regista, infatti, dopo il divorzio dei suoi genitori, colmò il suo senso profondo di solitudine costruendo nel suo immaginario un piccolo alieno che gli facesse compagnia. L’idea di base partì nel 1978 e, in seguito, l’ha elaborata con la sceneggiatrice Melissa Mathison, e scegliendo, personalmente, tutti gli attori principali, cioè Henry Thomas (Elliot), Dee Wallace (Mary) Robert MacNaughton (Michael) e una piccolissima Drew Barrymore (Gertie). Con “E.T.”, il regista scava a fondo nei sentimenti universali umani, distaccandosi dalla produzione precedente, e trattando valori come l’amicizia, la solidarietà, l’accettazione incondizionata del diverso e la corruzione acquisita dal mondo degli adulti in contrasto con l’innocenza dei bambini.

“E.T.” tra il genio di Carlo Rambaldi e le musiche di John Williams

“E.T.”, oltre ad essere un capolavoro sul piano emozionale, lo è anche su quello tecnico. Innanzitutto, il mitico alieno è una creazione del nostro Carlo Rambaldi, scomparso nel 2012, che costruì due modelli (uno in creta e un altro elettronico), con delle tecniche altamente avanzate. I movimenti dei modelli erano talmente realistici da impressionare lo stesso Spielberg e, in seguito, furono affidati ai maghi degli effetti speciali dell’Industrial Light & Magic. Nella riedizione del 2002 (che uscì in occasione del ventennale), gli effetti speciali furono, addirittura, migliorati, anche se il ricorso alla CGI per ricreare E.T., in alcune scene, non piacque a tutti. Naturalmente, è impossibile non associare il film alle fenomenali musiche del celeberrimo John Williams che, proprio grazie alla pellicola, riuscì a portare a casa il suo quarto Oscar.

Il successo commerciale e gli Oscar

Il film fu un successo clamoroso anche sotto il profilo commerciale. Costato circa 10.5 milioni di dollari, gli incassi hanno raggiunto, col tempo, l’incredibile cifra di circa 793 milioni di dollari, scatenando anche una corsa al merchandising senza precedenti. L’Academy, ovviamente, non poteva non accorgersi di una simile perla e il film fu candidato a 9 Oscar, portandone a casa 4 (Miglior sonoro, Miglior montaggio, Migliori effetti speciali e Migliore colonna sonora). La statuetta al Miglior film, quell’anno, andò a “Gandhi”, di Richard Attenborough, con Ben Kingsley, e ciò conferma che, in molti casi, non è l’Academy a fare di un film un cult immortale, ma semplicemente il cuore, la memoria e l’immedesimazione delle persone.

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