Sarebbe un film da “una lacrima per ogni sorriso”, Monuments men, non fosse così poco riuscito.
E’ arrivato al Festival di Berlino, con il solito corollario di folla, foto, urla, autografi e sorrisoni piacioni, il film più atteso, quello scritto e diretto da George Clooney e interpretato da John Goodman, Matt Damon, Bill Murray e Cate Blanchett, nel quale si racconta la vera storia dei suddetti monuments men (se vi viene da ridere a sentire questo nomignolo non siete i soli, anche il film fa ampia ironia su di esso), un gruppo di uomini che sul finire della seconda guerra mondiale furono incaricati di andare in Europa per trovare e salvare le opere d’arte che i nazisti stavano rubando e i comunisti volevano per sè.
Questo gruppo di soldati poco bastardi, di certo senza gloria (è il punto del film, celebrare il loro operato e tirarli fuori dal dimenticatoio), è radunato dall’esperto d’arte Clooney e comprende curatori di musei, architetti, registi di musical e artisti, tutti poco avvezzi alle armi e alla guerra ma pronti a tutto (ecco le lacrime che si dicevano) per salvare un Renoir o una statua di Michelangelo.
L’intento di Clooney per questa sua quinta fatica da regista è di realizzare un film di guerra vecchio stampo, a metà tra Il ponte sul fiume Kwai, La grande fuga (lo suggeriscono le musiche fischiettanti di Alexandre Desplat) e qualche accenno da Indiana Jones, in cui i nazisti siano un male assoluto e cartoonesco, in cui si narri una parabola che sciolga il dramma con un continuo ricorso all’ironia e nel quale il conflitto sia letto in maniera avventurosa senza negarne la tragedia. Equilibrio difficile che viene totalmente mancato, un colpo non da poco per la Berlinale di quest'anno che molto puntava sul film visto anche il senso che ha farne l'anteprima in Germania. Là dove si dovrebbe sorridere, magari con amarezza, c’è solo cretineria e le gag che dovrebbero sdrammatizzare risultano solo molto stupide. Non c’è insomma traccia di quella mano inesorabile nè dell’ottima scrittura mostrate in Good night and good luck, in Le Idi di Marzo o ancora in In amore niente regole (per certi versi il suo film più simile a questo). Non si nota l’abilità di un autore che in tutta la sua carriera da regista ha cercato di analizzare diversi momenti della storia americana, cercando di continuo, per ogni epoca tratta, lo spirito di un paese attraverso l’incontro e lo scontro dei suoi uomini con le sue istituzioni.
La delusione è doppia perchè Monuments men invece non solo si pone la domanda giusta (“La salvezza delle maggiori opere d’arte della storia dell’uomo vale delle vite umane?”) ma non teme di dare anche la risposta meno conciliante e più necessaria: un granitico “Si!”. Lo fa con una certa superflua pedanteria a parole ma soprattutto lo fa con efficacia mostrando lo sforzo umano dei protagonisti, la loro dedizione alla causa e la passione evidente per l’ideale che li spinge ad andare in Europa, in un esercito a cui non importa niente del loro compito e che la pensa al contrario. E questa è la seconda ottima componente del film, il fatto che a lungo l’impresa dei monuments men sia etichettata da tutti quelli che incontrano come futile e che essi stessi sembrino percepirla come tale, una lotta da Don Chisciotte in un mondo a cui non importa nulla dell’arte e non è disposto a sacrificare nulla o nessuno per essa.
Purtroppo è solo uno spunto che via via si scioglie in quadri di una pigrizia fastidiosa ed è flagellato da una voce fuoricampo che spiega tutto quel che c’è da spiegare, lasciando pochissimo all’intuizione del pubblico e quindi al suo divertimento. Tutto il contrario di un altro epico film che già aveva affrontato il tema dell’arte rubata dai nazisti e della scintilla di etica che si accende in un uomo spingendolo a rischiare tutto per fermarli, Il treno di John Frankenheimer, ispiratore di più d’una sequenza di Monuments men.