Dopo la visione di Point Break, remake dell’omonimo film di Kathryn Bigelow del 1991, viene da chiedersi come questo film potrà piacere a qualcuno, come possa avere un suo pubblico, quali dovrebbero essere i suoi punti di forza e in quale modo potrebbe avere un senso. Il film originale era un action movie fatto con la testa, il cuore e un grande occhio per le scene d’azione, la storia di due uomini (non priva di sottotesti omoerotici) che sviluppano un rapporto basato sulla prossimità alla morte. Al cuore di tutto però c’era un intreccio preciso e una trama chiara: le rapine, il poliziotto infiltrato in una gang di surfisti rapinatori tra cui emergeva la personalità di Bodhi, esteta del furto e della libertà, filosofo new age sempre in pace con se stesso. Di tutto ciò non c’è nulla nel nuovo Point Break e quel che lo sostituisce decisamente non è all’altezza.
Ne abbiamo visti di remake senza sapore, quasi in egual numero ai remake che invece sapevano innovare e trovare strade autonome. Abbiamo visto anche attualizzazioni di vecchie trame portate a termine solo per potersi giocare un titolo noto o un nome eccellente al botteghino nel primo weekend, ma Point Break è in lizza per batterli tutti. Parte come il poliziesco che dovrebbe essere, con un nuovo detective dell’FBI messo al lavoro su un caso di rapine estreme, visto che viene anche lui dal mondo degli sport estremi e forse se ne intende. C’è una banda che compie gesti eclatanti e fugge in maniere spettacolari, sono degli atleti e infiltrarsi tra di loro potrebbe essere il modo giusto di scoprire come catturarli. Le similitudini con l’originale finiscono qui, dopo circa 20 minuti, a questo punto inizia uno show di prestazioni atletiche e rischio di morte, alimentato da immagini patinate e musica.
Perdendo sempre di più qualsiasi riferimento alla trama che esso stesso aveva messo in piedi, Point Break edizione 2015 cerca anche di ripetere il rapporto che si crea tra i due protagonisti, cerca di imitarne la tenacia e la sostanziale identità, benché da parti diverse della barricata, senza però riuscirci mai. È facile dare la colpa del fallimento a due attori dal carisma prossimo allo zero, ma è anche evidente che chi ha scritto e diretto il film non aveva nessuna intenzione di impegnarsi realmente, preferendo qualche accenno e l’imitazione di alcune scene dell’originale.
La prima vittima è l’unica donna. C’è infatti nel film una storia d’amore che dà nuovo senso al termine “pretestuoso” in cui l’impressione è che nessun abbia capito il senso della storia di cui bisogna fare il remake. La parte femminile nell’originale era affidata a Lory Petti, attrice dai capelli corti e dall'atletico fisico androgino, una donna dura in un mondo di uomini ed aveva un senso; qui è invece Teresa Palmer a interpretare il medesimo personaggio, il massimo della femminilità e delle forme, il minimo dell'atletica.
La parte più ridicola però è quanto tutto il male del film si possa già intuire alla prima scena, già da quel momento è evidente che chi ha deciso di scrivere questa nuova trama non ha visto con attenzione il film del 1991. Due motociclisti corrono sui canyon, fanno motocross estremo e alla fine si misurano in uno stunt che non ha nessun senso, un rischio di morte dietro il quale non c’è motivazione, etica o una filosofia di vita: saltare con la moto oltre un burrone per finire su un piccolissimo pezzo di terra circondato dal vuoto. Il rischio è folle e non ci sono buone ragioni per farlo, sebbene tutto sia affrontato con la massima serenità. Quando, attesissima, arriverà “la morte dell’amico” incapace di calcolare la traiettoria giusta per il salto, saranno passati solo 5 minuti dall’inizio ma sembra già che la plausibilità sia inevitabilmente compromessa. Quello che seguirà sarà solo una lunga conferma.