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Intervista a Frederick Wiseman, chi è il leone d’oro alla carriera di quest’anno

Uno dei più grandi documentaristi viventi sebbene non abbia mai raggiunto la grande fama. Instancabile ed ancora attivo ad 84 anni ha solo due obiettivi non raggiunti: il Vaticano e la Casa Bianca.
A cura di Gabriele Niola
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Piccolo e grinzoso Frederick Wiseman sembra il maestro Yoda ma per il cinema americano è una vera istituzione. In 45 anni di lavoro ha girato documentari su quasi tutto (ospedali, scuole, università, palestre, centri d’igiene mentale…) raccontando la popolazione e lo stato americano come pochi altri: “Ci sono due posti in cui mi piacerebbe fare un documentario e non l’ho ancora fatto: il Vaticano e la Casa Bianca. Non ci ho mai provato ma non credo mi lascerebbero filmare…”. All’estero non è molto noto (almeno ai non appassionati) ma quest’anno è uno dei Leoni d’Oro alla carriera della Mostra di Venezia, l’altro è Thelma Schoonmaker, la montatrice di tutto il cinema migliore di Martin Scorsese (un vero genio, co-responsabile del gran ritmo di quei capolavori).

Ha iniziato nel 1968 con Titicut Follies, viaggio pazzesco in un manicomio criminale e oggi a 84 anni Wiseman è ancora una macchina inarrestabile che finisce un film e subito dopo ne comincia un altro, senza rimanere mai a corto di argomenti. I suoi bersagli sono sempre le grandi istituzioni, i sistemi complessi che affronta come un atleta, girando centinaia (sic!) d’ore di materiale e poi chiudendosi in sala di montaggio per diversi mesi sfrondando e selezionando fino ad ottenere un documentario che contiene solo il meglio attraverso un racconto molto preciso nonostante non usi interviste, non si intrometta mai, non sfrutti la voce fuoricampo e tutto il racconto nei suoi film venga dalle scene che riprende. Un maestro che all’ultimo festival di Cannes aveva portato National Gallery, documentario sul grande museo pubblico di Londra: “Ho trascorso 12 settimane là dentro, ho ripreso 255 dipinti tra i loro 2400 e ho imparato moltissimo su come si legge quello che un quadro racconta”. Del resto è tutto nel film, spiegato dalla guide e visto dagli avventori ma come sempre c’è anche di più, ci sono le riprese delle riunioni della direzione del museo in cui si affrontano temi di politica (come gestire i soldi statali) e di ibridazione con il commercio (la maratona di Londra dovrebbe finire davanti al museo, ci saranno 18 milioni di persone a guardarla ma nessuno potrà entrare in quel momento, che facciamo?).

Instancabile Wiseman non sa stare fermo: “Perchè se no subentra la depressione. Finire un film è come partorire un bambino dopo tanta fatica e poi vederselo portare via perchè non ci puoi più lavorare, così per non deprimermi devo iniziarne un altro”. Negli anni è passato dal documentare le grandi istituzioni americane al mondo dell’arte, come mai? “Se avessi fatto il contrario mi avreste chiesto lo stesso perchè. Non c’è una vera ragione, scelgo cosa fare con un misto di opportunismo e curiosità. Era dagli anni ‘80 che volevo fare un documentario sulla Comédie-Française ma ho potuto farlo solo qualche anno fa e mentre ero a Parigi sono andato a vedere un balletto, così ho pensato che avrei potuto fare un documentario su quello come opera successiva e mentre giravo quest’altro sono stato al Crazy Horse che è tutto un altro stile di ballo, così ho pensato che mi sarebbe piaciuto filmare quello e via dicendo”.

Wiseman è un maestro del cinema invisibile, in cui il regista sembra non esserci e invece è molto presente, che dà l’impressione di non avere un parere (poichè non c’è voce fuoricampo nè interviste) ma in realtà selezionando il materiale e mettendolo in sequenza dà un potentissimo punto di vista. Per riuscirci segue regole strettissime: “In linea di massima voglio avere accesso a tutto delle istituzioni che filmo ma se c’è qualcosa di molto specifico che non desiderano che io filmi basta che me lo dicano. Non credo di avere chissà quale diritto divino di filmare ma è essenziale avere pochissimi limiti”.

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