Impossibile dire che ne sarà ora della carriera di Sorrentino, se rientrerà nei confini italiani come capitò a Salvatores, se tenterà un exploit americano come si faceva decenni fa o se cercherà produzioni internazionali come Tornatore e Benigni. Di certo rimane che La grande bellezza è il film italiano premiato agli Oscar più bello dai tempi di Amarcord (1974), il più meritevole e quello di cui andare più fieri. Lontano dalla ruffianeria cinefila di Nuovo cinema paradiso e da quella sentimentale-storica di La vita è bella, quello che La grande bellezza ha portato fuori dall’Italia non è più l’esportazione di un retaggio passato, non è cioè la riproposizione di un affresco della realtà paesano-meridionale o di quanto siamo stati bravi ad inventare le commedie come mezzo per raccontare le tragedie, ma la manifestazione di un pensiero intellettuale ed artistico nuovo, proprio dei tempi che viviamo. Cinema che cammina sulle proprie gambe, autonomo e potente.
Forse è “potente” la parola più giusta per questo film che, come sempre nel cinema di Paolo Sorrentino, lavora su un profilo umano, racconta cioè un solo personaggio, un uomo dotato di un certo potere (in questo caso quello di “far fallire le feste”) al centro di una trama che mette in crisi le convinzioni che reggono il suo mondo.
C’è una forza cinematografica che sembra fisica, di inusitata violenza visiva nei primi 40 minuti di questi film, un’esplosione propulsiva che fa partire il film con la morte del giapponese e poi attacca la festa iniziale, mescolando un’estetica tutta personale che non si vede da altre parti (la maniera in cui unisce squallore e bello, vecchio e giovane, burino immerso nel raffinato) a momenti di stasi introspettiva (il momento di epifania di Jep, quello in cui Servillo mentre tutti ballano tira fuori dal cilindro un’espressione di atterrita disperazione che non avevamo mai visto prima, nemmeno nel suo immenso repertorio) a parti di commedia e ad un coinvolgimento umano devastante. Ma è proprio dopo quest’inizio esplosivo che il film dimostra di essere dotato di quel dono che pochi film hanno, la capacità di schiacciare i propri difetti e procedere come un rullo compressore. Dei molti quadri di cui è composto il film infatti non tutti sono riusciti alla stessa maniera, alcuni risultano un po’ scontati e quasi “piccini”, lo stesso però la potenza narrativa di quel percorso che per Gambardella vorrebbe essere di purificazione e invece è forse solo di rassegnazione, li annulla come bastoni esili messi tra ruote d’acciaio lanciate al massimo.
Sbaglia e di molto chi vede ne La grande bellezza un film sulla modernità, sui salotti, su Roma o anche sull’Italia, pecca di miopia e manca la sostanza di questo fenomenale ritratto umano. La città di Roma come la vita di Jep, colma di grande bellezza e della tragedia umana entrambe sepolte sotto il chiacchiericcio e lo squallore, una città intera in piedi da migliaia di anni come metafora di un uomo solo e dei suoi ultimi 40 anni.
Mostrare Roma nel suo splendore e nel suo orrore serve a Sorrentino per dare un’idea di cosa sia Jep: dandy decadente, protagonista di feste orride, un uomo che si disprezza da solo, ma custode anch’egli di una bellezza fantastica. Molti film avrebbero potuto raccontare questo, solo La grande bellezza riesce a farlo vivere agli spettatori nei gli ultimi flashback, quando con una trovata commovente Jep abita i suoi ricordi, cioè è presente da vecchio, all’interno dei propri ricordi da giovane, su quegli scogli quando sembrava potesse essere preso in pieno da un motoscafo e visse un momento di autentica eccitazione vitale, assieme alla grande bellezza della sua vita sentimentale.
E’ quello che probabilmente insegue Jep Gambardella quando ammira la decadenza del suo amico Romano, flirta con donne inutili e spogliarelliste di orrendi locali che nascondono intime bellezze, frequenta la parte più superficialmente volgare della buona società fino a scovare al suo interno “la santa”, il personaggio meno italiano del cinema italiano degli ultimi anni: un mostro di virtù che niente ha di reale, capace di sorprendere gli spettatori assieme al protagonista.
Grottesca se non proprio ridicola nella sua proverbiale vecchiaia e fragilità, la santa è il più incredibile degli incontri (e le espressioni di Servillo non ne celano l’eccezionalità, solo per quelle scene ha infatti riservato il vero stupore, l’autentica curiosità), comicamente inabile a qualsiasi cosa, sembra prossima alla morte ma promette di salire una scala in ginocchio, impresa impossibile da credere in una società che non fa altro che mentire (l’altro prelato del film è un gioiello di falsità), che quando si concretizza lascia sgomenti e fa provare al pubblico quella rivelazione che lo stesso Gambardella deve aver sentito, l’evidenza del fatto che tutte le parole vuote di cui lui e i suoi amici si riempiono la bocca, a cui non credono e che ritengono essere false per chiunque, invece da qualche parte nel mondo sono reali.