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La pelle che abito, la recensione

Almodóvar e Banderas tornano a lavorare insieme dopo più di 20 anni in questa sorta di pellicola drama/horror che si distacca dallo stile solito del regista, prendendo la strada dell’angoscia, del disturbante.
A cura di Ciro Brandi
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la pelle

Attesissimo il ritorno di Pedro Almodóvar. Il film “La piel que habito” (titolo originale) è stato presentato in concorso al Festival di Cannes 2011 e in Spagna è uscito il 2 settembre 2011.

L’amatissimo regista racconta la storia del chirurgo plastico Robert Ledgard (Antonio Banderas), il quale vive nella sontuosa residenza di El Cigarral con la governante (Marisa Paredes) e una donna stupenda, Vera (Elena Anaya), la quale viene segregata in una delle carceri della villa, avvolta in una tuta che le fa da seconda pelle. Un flashback ci riporta indietro e ci fa rivivere il tremendo incidente in cui la moglie di Ledgard resta sfigurata, e che la porterà al suicidio. Da quel momento il chirurgo ha un solo obiettivo: mettere a punto una pelle transgenica molto più resistente di quella umana e, soprattutto, ignifuga. Per farli il dottore si spingerà ben oltre i limiti della moralità umana.

Almodóvar e Banderas tornano a lavorare insieme dopo più di 20 anni in questa sorta di pellicola drama/horror che si distacca dallo stile solito del regista, prendendo la strada dell’angoscia, del disturbante. Il film è tratto dal romanzo di Thierry Jonquet, “La Tarantola” ma sono evidentissimi anche i riferimenti a “Frankenstein” o  a “La donna che visse due volte” di Hitchcock. E’ un viaggio attraverso la solitudine, la depressione, la debolezza dell’animo umano di fronte alle tragedie improvvise e la voglia di reagire che poi si esplica nelle maniere più assurde e imprevedibili. Non mancano i riferimenti all’ibridazione dei sessi, alla transessualità e al mescolamento dei generi, tema ricorrente nei suoi film. Ma qui il regista abbraccia troppo il modo americano di fare cinema o TV, rinunciando alla sua fotografia pop/vintage, ai suoi personaggi “realistici”, alla messa in scena “casereccia”, lanciandosi nel mondo patinato di un medico psicopatico (un ottimo Banderas!) che non conosce limiti fisici e/morali, inserendovi di tanto in tanto elementi grotteschi come marchio di fabbrica originale, ma non servono, sono schiacciati da tutto il resto.

La regia è scorrevole, lineare, attenta ai dettagli ma tutto ci da la sensazione di un pericoloso “deja vu”, tematiche, scene, personaggi, finale, non rispecchiamo minimamente i canoni classici almodovariani. Ciò potrebbe essere anche un bene perché se un regista non rischia, resta fossilizzato per sempre nei suoi concetti, ma in questo caso ne è valsa la pena? Aspettiamo la reazione del pubblico e vedremoo.

Voto: 6-

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