Non c’è niente di più semplice e più classico, in questi anni, di una storia di supereroi. Contemporaneamente non c’è niente di più innovativo, in Italia, in questi anni, di una storia di supereroi. Gabriele Salvatores ci ha provato con l’operazione di alto profilo Il ragazzo invisibile e ha preferito contaminarla con il suo cinema e una visione molto d’autore per finire a fare qualcosa di lontano dal puro intrattenimento e dall’azione. Gabriele Mainetti (un esordiente) invece è andato fino in fondo e il suo Lo chiamavano Jeeg Robot (presentato oggi alla Festa del cinema di Roma) è una vera sorpresa, l’unico film di supereroi moderno che sia mai stato girato nel nostro paese.
Quello che accade a Enzo Ceccotti, mezza tacca (mezzo scemo) del sottobosco criminale italiano potrebbe essere stato scritto da Stan Lee negli anni ‘60: fuggendo dalla polizia dopo il furto di un orologio si butta nel Tevere per nascondersi, sfondando per errore un barile di materiale radioattivo e finendoci dentro. Niente di più tipico per acquistare dei superpoteri. Da quel momento in poi tutto il resto del film seguirà la parabola tipica dell’eroismo Marvel, dalla scoperta dei suddetti poteri, fino allo scontro con la nemesi. Sembra impensabile che una storia simile possa essere ambientata in Italia, ma Mainetti assieme agli sceneggiatori Menotti e Nicola Guaglianone ha trovato la chiave perfetta, quel misto di serietà, crimine e ironia che rende tutto credibile ed emozionante. Ad aiutarlo anche un cast in grandissima forma, Claudio Santamaria nel ruolo protagonista e Luca Marinelli in quello di un villain, tra il joker e il dandy.
Quella cosa che al cinema italiano riesce così difficile, rinunciare a idee intellettuali e realizzare film di puro genere e puro intrattenimento, fatti bene e con grande conoscenza tecnica e dell’azione, Lo chiamavano Jeeg Robot è riuscito a farla, contaminandola di un’ironia quasi indispensabile per non prendersi troppo sul serio. In fondo è pur sempre un adattamento di un genere straniero, in fondo non siamo a Manhattan o Tokyo e il protagonista ha a che fare con dei coatti di periferia. Uscito rinforzato Enzo Ceccotti vuole fare soldi e usa la sua forza per sradicare un bancomat (non sa che se lo si forza le banconote vengono macchiate da inchiostro indelebile), una videocamera di sicurezza lo riprende e diventa subito virale online, un mito: il supercriminale contro le banche. I suoi problemi però sono altri, più grossi, pericolosi e armati.
Con una scena di chiusura che si diverte a far finta di essere Batman ma una trama molto originale, che non pensa in piccolo ma in grande, che fa il massimo uso di effetti speciali non perfetti ma funzionali e che sa bene cosa sia importante in una storia simile, Lo chiamavano Jeeg Robot si fa amare al primo colpo. Mette due scemi (letteralmente) al centro di una storia di crimine e grazie a loro la tramuta in supereroismo di quartiere, non dimenticando di immaginare intorno a loro un mondo in crisi, bombe che esplodono e scenari da fine del mondo. L’unica salvezza sono i DVD di Jeeg Robot, punto di riferimento imprescindibile per Alessia, la matta che si è attaccata ad Enzo convinta che sia lui Jeeg.
Quello di Mainetti e Guaglianone non è il primo tentativo, i due hanno una storia di corti in tema, quasi preparatori. Tiger boy (storia di un bambino che va in giro con la maschera di un lottatore) e poi Basette (famoso corto con Mastandrea nei panni, effettivi, di Lupin III) sono stati passi di avvicinamento alla contaminazione tra universo romano e mitologia da animazione nipponica, tra crimine nostrano e dinamiche da film d’azione. E forse un buon allenamento era proprio quello che voleva per muoversi in un territorio in cui nessuno, da noi, si è mai mosso, per mobilitare capitali, distribuzione e poi maestranze e due attori di richiamo come Santamaria e Marinelli in un progetto simile.