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Opinioni

Tolo Tolo, troppo rumore per il solito Zalone

Che Luca Medici sappia fare film comici e giocare con la satira di costume è un fatto. Che Luca Medici unito a Paolo Virzi abbia reso questa satira più ragionata e amara intorno al tema migranti ne è un altro. Che Checco Zalone, in Toto Tolo elevato al nome intero di Pierfrancesco Zalone, sia ormai più ‘telefonato’ e prevedibile, incapace di un effetto più dirompente rispetto all’ottimo standard al quale ha abituato, è la chiusura per un’umile recensione che non vi porterà a scomodare termini come razzismo o xenofobia.
A cura di Eleonora D'Amore
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La premiata ditta Medici – Nunziante si è sciolta e se quest'ultimo ha preferito affacciarsi al mondo 3.0, scrivendo e dirigendo il film Il Vegetale di Fabio Rovazzi, il campione del boxoffice italiano ha voluto affiancare il suo nome all’illustre e pluripremiato Paolo Virzì. Il film Tolo Tolo parte così, con un’aspirazione più alta, nel desiderio di lasciare un segno superiore a quello di una risata. E ci prova con tutto se stesso, facendo un largo giro che parte da Spinazzola e arriva fino in Kenya, risultando però, alla fine, più ‘telefonato' di Alberto Lupo.

Perché sin dalla partenza, le continue boutade su Iva, tasse, Imu e l'ultima spiaggia del reddito di cittadinanza hanno la meglio, precipitando via via nei vari espedienti ‘per tirare a campare’, come il business del sushi in un paese di 296 anime e il sogno di scappare in Africa, dove far spuntare atolli come funghi, con l'abilità imprenditoriale di un Briatore qualunque. Da qui, la sicurezza di creare un impero in un paradiso fiscale, avvalendosi dell’integerrima cultura del posto, avulsa dal principio tricolore del ‘fottere lo Stato‘, che con un'onestà da terzo mondo riesce a rendere l’Italia più terzo mondo di lei. E il disilluso Checco in Kenya ci va, trovando un amico, Oumar, appassionato di cinema neorealista, e la giovane Idjaba, assist perfetto per livellare cromaticamente anche il plot amoroso.

La guerra civile in cui Zalone si trova coinvolto nulla può contro quella che ancora lo aspetta in Italia, fatta di ex mogli e debiti, rivendicazioni e conti prosciugati, ostilità e aridità familiari potenti quanto mine vaganti. Un viaggio della speranza, che attraverserà il deserto del Sahara e la Libia, con un sapiente uso della macchina da presa nelle location più impervie e sabbiose, fino al capolinea imposto dai trafficanti di migranti. E ogni tappa di questo viaggio riproporrà puntualmente la parte migliore di se stessa, che poi è quella lasciata nella scena precedente. E, come un déjà vu, nei film precedenti.

La portata dei problemi a colori (bianco e nero) completamente sfalsata e la pigrizia occidentale contrapposta al problem solving africano, continuano a scontrarsi su un terreno conosciuto e non sanano mai il germe dell’ignoranza del personaggio Zalone, dimentico del rispetto per l’altro da sé (che sia omosessuale o nero poco importa) e vittima, consapevole,  dei classici cliché. E allora gli africani, vu cumprà per antonomasia, dovranno solo vendere e lasciare ai cinesi il compito di produrre, o meglio di contraffare, in un continuo di battute servite tanto al kg e con un tempismo quasi olimpionico.  E se questa linearità un po' delude, di certo non fa vacillare la convinzione che in Tolo Tolo ci si trovi di fronte a una comicità e all'irriverenza di una satira difficilmente reperibili in giro, se non, ad esempio, in un buon Crozza.

Il viaggio continua su un barcone diretto in Italia, una nave ONG, che ha il buon senso di non avvalersi della parodia di una tedesca rasta e cazzuta, ma sceglie di subire la politica dei porti chiusi e di scontrarsi con l’attualità di un momento storico guidato dalle sardine e soggetto alle alte maree della gestione politica europea. C'è quel Luigi Gramegna, interpretato da Gianni D'Addario che, da disoccupato e nullafacente, scala i vertici di pubblica amministrazione e politica in un batter di ciglia, diventando carabiniere, pignoratore, assessore comunale, ministro degli Esteri, presidente del Consiglio e presidente della Commissione europea, pur non onorando mai nessuna di queste cariche. “Non è colpa mia se siete nati in Africa" dice Gramegna e Zalone rilancia, spiegando di averlo voluto “con la carriera di Di Maio, vestito come Conte e con il linguaggio di Salvini”. Un festival di buone intenzioni, alla portata del sentiment dal facile click, che però non spingono, non salgono mai abbastanza fintanto da raggiungere i condotti lacrimali, non stringono alla gola come La notte poco prima delle foresta Stiamo tutti bene di Mirkoeilcane, si fermano all'impeccabile formula Zalone e se lo fanno bastare.

E c’è anche la quota restiamo umani con il ‘tolo tolo’ (solo solo, ndr) del piccolo bambino africano Dudu, che si chiama come il cane di Berlusconi (e giù risate, come da copione) e che promette la stretta al cuore necessaria per l'ambizione della riflessione, della chiamata etica, e del segno che il film si prefigge di lasciare. E, nonostante tutto, lo lascia pure, facendo indossare al suo protagonista l’abito del duce con la mano tesa senza il rischio di scomodare parole come razzismo o xenofobia, sicuro nel chiamare un migrante senza il nome di battesimo e di perdersi nelle coordinate dei barconi in mare, cercando un Isis a bordo che funga da razzo per chiamare i soccorsi. Primo giorno al cinema, più di otto milioni ed è già record, probabilmente Luca Medici riuscirà anche stavolta a battere se stesso ma forse è Checco Zalone che dovrà misurarsi, prima possibile, con altro da lui.

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Casertana di origine, napoletana di adozione. Laureata in Lingue e Letterature Straniere all'Università L'Orientale di Napoli, lavora a Fanpage.it dal 2010, anno in cui il giornale è nato. Caposervizio dell'area spettacolo.
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