Nel primo film italiano in concorso al Festival di Venezia c'è di certo più "sociale" che "criminale" in Anime nere. La zona scelta è quella dell’Aspromonte, forse la più simbolica del rapporto che la malavita calabra stringe con il territorio, di certo la più nota alle cronache nazionali, lì Francesco Munzi (Il resto della notte, Saimir) sceglie di raccontare i suoi tre fratelli, ultimi eredi di una famiglia mafiosa. A regnare è il contrasto tra locale e nazionale, tra antico e moderno, pagano e sofisticato: “La cosa che mi è colpito di quella terra” dice il regista “è proprio come in essa si unisca la dimensione ancestrale delle tradizioni e quella molto moderna degli status symbol mafiosi”.
Con uno studio accurato sul territorio, un romanzo da cui partire per la sceneggiatura (l’omonimo di Giacomo Criaco) e una scelta audace, cioè quella di andare in uno dei centri nevralgici della ‘ndrangheta, Africo, Munzi voleva narrare la distanza di quella zona d’Italia dal resto dello stato: “Nella popolazione locale e ovviamente nelle mafie riscontravo pochissima fiducia nello stato. É percepito come un cugino nei casi migliori se non proprio come un colonizzatore o un invasore. Sono luoghi con pochissima armonia con il resto del paese eppure le loro azioni hanno conseguenze nazionali”.
I tre fratelli protagonisti della storia incorporano tre diverse dimensioni che la mafia assume oggi: quella locale e contadina legata a riti da campagna, quella rampante ed esagerata dell’ossequio e dei SUV e quella molto moderna, lontana dal meridione che mette un piede nella finanza nazionale del nord. Il rinverdirsi di una vecchia faida porta le tre anime, cioè i tre fratelli, a lasciar emergere i vecchi contrasti. Non siamo insomma dalle parti di Gomorra (né il film né la serie) o di Romanzo Criminale (né il film né la serie), ma più da quelle del cinema italiano degli ultimi anni. Purtroppo la sua caratteristica più evidente appare anche come il principale limite del film che promette qualcosa che poi non mantiene.
“Con la scusa della faida il mondo dei personaggi esplode” racconta sempre il regista “questo mi è servito per raggiungere l’umano, perchè più i personaggi erano in conflitto più il racconto si faceva universale, dimenticando la ‘ndrangheta”. Anime nere infatti si presenta come un film di mafia ma è ben presto chiaro che non ne seguirà le regole, ha 3 fratelli come Il padrino ma non vuole essere altro. È in realtà un film d’interni e di struggimenti, uno di poche pallottole, poche parole e molti silenzi espressivi mentre si guarda il mare in inverno. Un film di eccessi recitativi, in cui sembra di intravedere l’attore e mai il personaggio, che vule continuamente sbattere in faccia il suo essere “importante”, tutto il contrario della misura, del controllo e dell’asciutta onestà dei migliori film di mafia (anche italiani).
Allora il ragionamento e la parte più interessante del film sembra essere quella delle donne, relegate in un cantino come le famiglie prevedono (quella che si adatta peggio è Barbora Bobulova, donna straniera che vive al Nord e non comprende le leggi calabre come del resto anche il dialetto), sono esseri che “sembrano muti e marginali ma in realtà fanno un lavoro di sottrazione che mantiene lo status quo” racconta Anna Ferruzzo, una delle interpreti “sembra che non si muovano e non contino nulla invece con il loro atteggiamento confermano i destini di chi gli sta intorno”.