Vincitori e vinti degli Oscar 2012 [LA CRITICA]
La notte degli Oscar è arrivata alla sua ottantaquattresima edizione e, come sempre accade, non smette di generare sorpresa e qualche contestazione. Al trionfo di The Artist si accompagna la delusione di George Clooney che non riesce a portare a casa nessuna statuetta, né con Paradiso amaro (per cui era candidato come miglior attore protagonista) né con Le idi di marzo (in nomination per l'Oscar alla migliore sceneggiatura non originale). La beffa per Clooney è però duplice: Paradiso amaro, infatti, conquista una sola statuetta, quella per la Miglior Sceneggiatura Non Originale: proprio la categoria in cui Cloneey concorreva come sceneggiatore. Ma l'annunciato successo di The Artist, film che celebra in chiave moderna l'epoca del muto, impone una breve riflessione sugli albori del cinema, ovvero sull'epoca in cui l'avvento del sonoro non era che un vago presagio di catastrofe e pochi si dimostrarono abbastanza lungimiranti da comprendere le potenzialità di tale innovazione. A titolo esemplare, vale la pena ricordare che, nonostante il primo film sonoro fosse stato girato nel 1927, Charlie Chaplin si rifiutò di lasciare il cinema muto fino al 1940, anno in cui girò Il Grande Dittatore. Nel 1929, anno della prima edizione della cerimonia degli Oscar, tra gli academy awards era presente un premio alle "migliori didascalie" e tra i premiati non figura alcun film sonoro (nonostante fossero stati realizzati già due film parzialmente o totalmente sonori: The Jazz singer e Lights of New York), eppure oggi – dopo ottantaquattro edizioni – il cinema muto si ripropone con forza all'attenzione del pubblico. Il film del francese Michel Hazanavicius non ha conquistato soltanto i premi per il Miglior film, Miglior regia, Miglior attore protagonista, Miglior colonna sonora originale e Migliori costumi ma anche – e soprattutto – il pubblico.
Il successo di pubblico di The Artist, infatti, è ricollegabile al generale bisogno di ritorno passato, bisogno che da sempre caratterizza i periodi di crisi. Basti pensare a quanto sia in voga, oggi, parlare di decrescita, di riconquista della lentezza e di uno stile di vita votato alla semplicità. Il trionfo del film non va quindi analizzato soltanto in chiave artistica, ma principalmente in chiave sociologica. La critica non è per niente unanime nell'intenzione di consacrare la pellicola a "miglior film dell'anno" e – anzi – l'assegnazione del premio ha creato non pochi malumori. Certo, non è la prima volta che si tenta riproporre la magia del cinema muto (lo fece Jaques Tati nel 1953 con Le vacanze di Monsieur Hulot e poi ancora Mel Brooks, nel 1976, con L'ultima follia di Mel Brooks) ma questa volta il desiderio di passato e di poesia rappresentato in The Artist trova corrispondenza nei sentimenti che animano buona parte dell'umanità, pressata dall'incertezza e dalla precarietà dell'esistenza.
Altri grandi delusi della notte degli Oscar sono Martin Scorsese, Steven Spielberg e David Fincher. Il bellissimo Hugo Cabret di Scorsese, pur avendo conquistato il Golden Globe per la Miglior regia, undici nomination e ben cinque statuette (tra cui quella alla Migliore Scenografia, assegnata agli italiani Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo), non porta a casa nessuno dei premi più prestigiosi ma si imprime nell'immaginario collettivo per la grande potenza visiva e l'incredibile delicatezza della narrazione. Nel successo di pubblico della pellicola, inoltre, rinveniamo un'ulteriore conferma di quanto detto a proposito di The Artist; il bisogno di racconti densi di poesia che consentano l'evasione dal reale, dal contingente è del tutto evidente e, di certo, condizionerà fortemente la produzione cinematografica dei prossimi anni. Per quel che riguarda Steven Spielberg, candidato a sei premi Oscar per War Horse ma lasciato completamente a secco dall'Academy, il celebre regista statunitense vanta ben quattro statuette (di cui l'ultima ricevuta nel 1999 per la regia di Salvate il soldato Ryan) ed erano in molti a credere che questa nuova prova avrebbe fruttato almeno uno dei premi più ambiti. Invece, nonostante i buoni riscontri di critica e pubblico, la notte degli Oscar non ha voluto offrire a Spielberg alcun riconoscimento per un film la cui struttura narrativa risulta ineccepibile (pur nel suo "classicismo") e che ben si inserisce nel clima della recente produzione del regista. Tra i delusi dagli Oscar 2012, infine, troviamo il trionfatore della scorsa edizione degli Oscar, David Fincher (il cui Millennium: uomini che odiano le donne era candidato a cinque statuette) per cui l'unica conquista è quella del premio per il Miglior Montaggio, ma c'è da dire che le aspettative non erano di molto superiori al risultato finale.
La notte degli Oscar, però, ha riservato gradite sorprese e diverse conferme. Tra queste vale la pena di segnalare l'assegnazione a Merly Streep della terza statuetta della carriera (le prime due le conquistò nel 1980 per Kramer contro Kramer e nel 1983 per La scelta di Sophie). The Iron Lady, pellicola che racconta la vita dell'ex primo ministro britannico Margaret Tatcher, è valsa alla Streep il premio come Miglior attrice protagonista portandola a quota diciassette nomination: un record assoluto e difficilmente insidiabile, specie se si considera che, dopo la Streep, in classifica figurano due grandissime attrici ormai decedute (Katharine Hepburne e Bette Davis). Il record di vittorie nella categoria Miglior attrice protagonista, però, resta in mano a Katharine Hepburne (a quota quattro), ma la terza statuetta fa di Merly Streep un membro della triade artistica (in cui si inseriscono anche Elyzabeth Taylor e Ingrid Bergman) che può fregiarsi del merito di essere stata premiata per ben tre volte dall'Academy Awards, anche se la Taylor conquistò il suo terzo premio non per una particolare interpretazione ma per l'impegno umanitario.
Ma gli Academy Awards del 2012 evidenziano un altro particolare non da poco: gli USA tornano ad amare Woody Allen, anche se il premio assegnato al regista/attore evidenzia – ancora una volta – che l'Academy lo preferisce scrittore anziché regista. Pur essendo candidato nelle categorie Miglior Film e Miglior Regia, infatti, l'ultima pellicola di Allen – Midnight in Paris – conquista soltanto l'Oscar per la Migliore Sceneggiatura Originale. L'eclettico artista statunitense, tanto amato dagli europei quanto poco considerato in patria, non conquistava una statuetta dal lontano 1987 (anno in cui gli fu riconosciuto il premio alla Migliore sceneggiatura originale per uno dei suoi indiscussi capolavori: Hannah e le sue sorelle). Prima di allora, Allen era stato premiato solo nel 1978 con due statuette (per la sceneggiatura e la regia dell'eccellente Io e Annie). L'ultimo film di Allen è una piccola favola moderna con tanto di morale conclusiva. La pellicola racconta, stavolta in maniera esplicita, del desiderio di evasione dal reale, del bisogno di un mondo altro e dell'ossessione per un passato cui si guarda con rimpianto misto a desiderio, senza comprendere che – in fondo – il valore del presente sfugge agli occhi di chi lo abita, e il rifugio in un passato considerato pregiudizialmente più attraente e più vero non è che un sintomo dell'incapacità di scendere a patti con la realtà.
Tra i riconoscimenti maggiormente condivisi da critica e pubblico, invece, figura l'Oscar assegnato al film Una separazione dell'iraniano Asghar Farhadi, già vincitore dell'Orso d'Oro alla Berlinale 2011. Il premio come Miglior film straniero non è che l'ulteriore conferma, da un lato, del valore artistico dell'opera e, dall'altro, del desiderio di dare risalto alla lotta del popolo iraniano. Il film di Farhadi, pur non essendo una pellicola politica, è simbolo della difficile condizione in cui vivono artisti e semplici cittadini, costretti all'ombra di un governo decisamente incline alla censura e poco avvezzo a tollerare contestazioni. Farhadi ha vinto lo scontro con pellicole provenienti da Belgio, Canada, Israele e Polonia, assicurandosi così ulteriore slancio distributivo e una popolarità a cui il cinema iraniano è stato raramente esposto (l'unica statuetta per il Miglior film straniero, fino ad oggi, era stata conquistata da I ragazzi del paradiso di Majidi Majidi).
Al di là delle considerazioni artistiche, i premi assegnati quest'anno dall'Academy evidenziano il desiderio di dar voce all'esigenza di un altrove che, mai come in questo periodo, sembra caratterizzare il sentimento ultimo degli spettatori rispetto alle opere cinematografiche. Se guardiamo a The Artist e a Midnight in Paris questa considerazione pare quasi urlata: da un alto abbiamo una pellicola nostalgica che rievoca un passato distante, rimpianto, a cui non si può non guardare con una tenerezza mista a desiderio, dall'altro un film che racconta la storia di uno scrittore contemporaneo che vorrebbe vivere nella Parigi degli anni '20 (l'epoca del trionfo del cinema muto), che non riesce a sentirsi legato al proprio tempo e che tenta di sfuggirvi in ogni modo. Ma non si tratta di un'evasione scanzonata, ridanciana, bensì di un desiderio di poesia, di bellezza che intende contrastare la brutalità del reale. Certo, al cinema non si può chiedere soltanto di trasportare il pubblico in un fiabesco limbo di leggerezza, ma è pur vero che gli artisti sono pur sempre esseri umani che, seppur spesso inquinati da logiche commerciali, danno voce a una visione; e – se sono davvero bravi – la loro visione corrisponde ai bisogni inconsci di quella collettività che chiamiamo pubblico.