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Cesare deve morire, il capolavoro dei Taviani finalmente al cinema

Arriva in sala, distribuito dalla Sacher, il film dei fratelli Taviani che ha riportato l’Orso d’Oro di Berlino in Italia dopo ben 21 anni, quindi dal 1991, anno in cui fu vinto da “La casa del sorriso” di Marco Ferreri. La pellicola, girata in stile docu-fiction, narra la messa in scena della tragedia di Shakespeare, “Giulio Cesare”, da parte dei detenuti del carcere di Rebibbia.
A cura di Ciro Brandi
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Ceare deve morire

Arriva in sala, distribuito dalla Sacher, il film dei fratelli Taviani che ha riportato l’Orso d’Oro di Berlino in Italia dopo ben 21 anni, quindi dal 1991, anno in cui fu vinto da “La casa del sorriso” di Marco Ferreri. La pellicola, girata in stile docu-fiction, narra la messa in scena della tragedia di Shakespeare, “Giulio Cesare”, da parte dei detenuti del carcere di Rebibbia. La regia è di Fabio Cavalli, il quale ha saputo destreggiarsi egregiamente in un sentiero un tantino tortuoso, trasformando i detenuti in attori shakespeariani, contando solo sull’ambientazione di Rebibbia, fondendo emozione e rabbia per la condizione di quegli uomini che per 76 minuti ci tengono incollati alla poltrona. Il film è per la maggior parte girato in bianco e nero (solo la scena iniziale e quella finale sono a colori). Si inizia con i provini, la distribuzione delle parti e iniziamo man  mano a capire i rapporti che si sono creati tra questi “compagni” di cella, non sempre idilliaci. La cosa che ci colpisce subito è che ognuno di loro recita nel proprio dialetto, quindi ci troveremo ad ascoltare il Giulio Cesare in siciliano, pugliese, napoletano, ma ciò non ci farà perdere il senso profondo e alto di quelle parole stesse, anzi ne amplificherà i significati, avvicinando quel testo ai nostri giorni.

Il risultato del progetto dei fratelli Taviani poteva essere scontato e banale, ma così non è stato. “Cesare deve morire”, ha sfiorato il documentario televisivo, ma si è inserito in un contesto ben più ampio, il tentativo di evasione dei detenuti attraverso il teatro non riesce a cancellare definitivamente le loro colpe, che sono rese note e  gravano sulle loro spalle come pesantissimi macigni. La messa in scena è un momento di “respiro”, di rivalsa, di qualcosa di diverso che può servire anche come messaggio agli spettatori per far capire quanto sia dura la vita in carcere e quanto sia bella la “libertà” di fare ciò che si vuole senza dover tornare alla fine nel buio delle proprie celle. I Taviani quando hanno ricevuto l’ambito Orso d’Oro hanno ringraziato tutti i protagonisti della loro pellicola. Noi vogliamo almeno nominare quelli principali in questo articolo perché, almeno per 76 minuti, ci hanno fatto sognare e riflettere, alla stregua (e forse molto di più) di attori di fama mondiale e mega produzioni costate milioni di dollari. I loro nomi sono Cosimo Rega (Cassio), Salvatore Striano (Bruto), Giovanni Arcuri (Cesare), Antonio Frasca (Marcantonio), J. Dario Bonetti (Decio) e Vincenzo Gallo (Lucio).

Tutto il senso del loro progetto è racchiuso nella frase detta da uno degli attori in primo piano: “Da quando ho conosciuto l’arte, questa cella è diventata una prigione” e gli ideali di libertà e giustizia invocati da Bruto/Salvatore Striano sono un invito a non commettere i loro stessi sbagli, dato che loro, per un periodo più o meno lungo, non potranno più perseguirli. Noi sinceramente siamo rimasti senza parole e siamo contentissimi che questo tipo di cinema italiano controcorrente, diverso, impegnato, alto, profondo sia stato riconosciuto a livello internazionale, ed è quello che vorremmo anche per il futuro.

Voto: 8

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