Elio Germano: “Favolacce, un dispregiativo universale”
Il film Favolacce, l'opera seconda dei fratelli Fabio e Damiano D'Innocenzo, saltata l'uscita al cinema del 16 aprile, andrà direttamente on demand dall’11 maggio a causa della chiusura temporanea delle sale per l'emergenza sanitaria derivata dal coronavirus. In streaming, su Sky Primafila Premiere, TimVision, Chili, Google Play, Infinity, CG Digital e Rakuten Tv, dopo l'enorme successo riscosso a Berlino e l'orso d'argento per la sceneggiatura.
Elio Germano, anche lui trionfatore a Berlino con l'Orso d'argento come miglior attore per il film Volevo nascondermi di Giorgio Diritti, sulla vita di Antonio Ligabue, è il protagonista di questa "favola nera" insieme a Barbara Chichiarelli, Gabriel Montesi, Max Malatesta ed Ileana D'Ambra. Fanpage.it lo ha raggiunto telefonicamente per un commento alla vigilia dell'uscita in streaming.
Favolacce nasce sotto il segno di un dispregiativo, un po’ come Uccellacci uccellini di Pier Paolo Pasolini. E non è un caso.
Favolacce è un racconto sul nostro mondo in forma di favola, di parabola se vuoi, anche se è un film che non porta in sé nessun giudizio. È piuttosto una forma di specchio. Tu citavi Pasolini e può essere un riferimento utile in questa accezione di realtà protesa a una forma di poesia oltre il reale, ma non ha altri elementi in comune. Ci sono gli esseri umani al centro, non attori, non fantasmi, non folletti, non è un film di fantascienza, è qualcosa di molto terreno.
Si tira in ballo il concetto di favola perché coinvolge molto il mondo dell’infanzia e ne mostra l’angolo più angusto.
Sì, sono quasi adolescenti, individui che stanno facendo i conti con la fine della loro infanzia. Ed è un po’ la fine dell’infanzia di tutti, il racconto della fine di una certa idea di purezza e di lontananza da una crudezza terrena. Riguarda il passaggio brusco da un mondo in cui ci rifugiamo in un non voler vedere a un altro in cui devi necessariamente fare i conti con una natura violenta. Una dimensione più edonistica, in cui si è perennemente in competizione, in una eterna gara a chi arriva prima, a chi è più ricco, a chi ha più follower, inconsapevoli che poi la vita e la natura vanno in un’altra direzione.
Favolacce gioca anche molto sul concetto di spazio: le storie sono collocate in case chiuse dall’interno, schermate con cancelli e ringhiere, in cui la realtà spesso è camuffata, oppure in abitazioni sperdute su un terreno paludoso, che è il corrispettivo del torbida umanità che vi ha messo radici.
È come se tutti fossero impegnati a fare delle rappresentazioni, in cui l'unica priorità è quella di esibire figli, donne, trofei, in una gara continua dove tutte le cose che si realizzano diventano i premi di una riffa. Siamo immersi in una società che ci racconta che il motore delle cose è questo, salvo poi accorgerci bruscamente che il motore della vita è altro. E gli appartamenti sono diventati lo specchio di questa nostra modalità di vivere: mentre prima ancora ci riempivamo di socialità, di condivisione, di rapporti umani, di sostegno reciproco, era possibile vivere fuori dagli appartamenti. Man mano che la gente ha imparato ad accumulare, ha sviluppato la tendenza a proteggere quello che ha e quindi a isolarsi. In più la costante competizione ci ha reso continuamente ‘performanti’ e di conseguenza incapaci di esprimere le nostre fragilità, che non fanno gioco a nessuna gara.
I fratelli d’Innocenzo ‘hanno studiato l’alberghiero’, sono apparentemente degli autodidatti del cinema, eppure Favolacce, così come il loro primo film La terra dell’abbastanza, colpisce per la maestria della macchina da presa e per il suo forte senso estetico.
Fai bene a dire apparentemente perché i fratelli d'Innocenzo sono tra le persone più colte che abbia mai frequentato. Nonostante la loro età (sono gemelli e hanno 32 anni, ndr) e gli studi ufficiali che hanno fatto, sono la prova che c’è sempre una bipolarità tra quello che facciamo istituzionalmente e quello che siamo. I d’Innocenzo hanno una cultura traversale che sul set aiuta perché funge da riferimento. Non dovendo dimostrare niente a nessuno, possono permettersi di essere sinceri e di fare questo tipo di cinema senza censure. Inoltre, qui l’estetica prende spunto dalla sua etimologia e si traduce anche in sentimento, non solo nell'armonia dell’esteriorità.
Una favola dark. La loro ultima collaborazione alla sceneggiatura del Dogman di Garrone ha condizionato questo secondo film?
A dire la verità, la sceneggiatura di Favolacce è talmente bella e potente che spesso mi sono chiesto come l’avrebbero girata Salvatores, Luchetti e lo stesso Garrone. Sin da principio il copione aveva tutto l’aspetto di un colossal, poi i fratelli d’Innocenzo l’hanno reso con il loro linguaggio. Una sceneggiatura così ben fatta e puntuale, costata 10 anni di lavoro, che secondo me ogni regista l’avrebbe interpretata a modo suo e ne avrebbe restituito un film diverso.
Bruno Placido, il tuo personaggio, assomiglia al colonnello Frank Fitts di American Beauty ma ‘senza America e senza beauty'.
American Beauty è uno dei film che in scrittura si avvicinava a quello che avremmo fatto. Sicuramente il mio personaggio è stato studiato in base all’idea di un prototipo romano che avrebbe usato quella polo griffata, il taglio rasato o la sigaretta elettronica come elementi di contrasto per camuffare la sua vera umanità e soprattutto disumanità.
Il film, dopo aver vinto l’orso d’argento per la migliore sceneggiatura a Berlino, a causa della pandemia verrà distribuito on demand a partire dall'11 maggio 2020. C’è stata grande reticenza iniziale sulla distribuzione in streaming, tu cosa ne pensi?
La visione in streaming riduce la bellezza dell’esperienza al cinema, è indubbio. Favolacce, ad esempio, a vederlo sul telefonino risulterebbe devastante. Il problema è che gli attori hanno poca voce in capitolo in questo discorso, in cui prevalgono le logiche dei produttori, quindi possiamo solo augurarci che non si disperda il valore dell’esperienza collettiva nelle sale, con la quale si riesce a valorizzare al massimo un lavoro fatto in nome della sacralità dell’arte cinematografica.
L'altro film portato a Berlino, Volevo nascondermi, che ti ha visto interpretare il ruolo di Antonio Ligabue e che ti ha fatto vincere l'Orso d'argento come miglior attore, è uscito una settimana prima del lockdown per una manciata di giorni. Avrà una seconda possibilità nelle sale?
Me lo auguro. Ad oggi l’intenzione è quella di aspettare l’autunno per vedere se riusciamo a tornare al cinema, caso contrario non so se si potrà virare sullo streaming. Mi chiedo anche quanta voglia e coraggio si avranno per tornare in sala, chissà come sarà. Sarebbe bello se, un domani, scoprissimo che questo periodo non è stato un'occasione persa e che possa essere servito per una riflessione in più su tutto. Ora lo stiamo ancora attraversando, è presto per fare una previsione.
I tuoi colleghi e il mondo del cinema, a nome soprattutto di chi lavora dietro le quinte, stanno rivendicando a gran voce un diritto alla tutela della categoria.
Discorso lungo e complesso. Diciamo che per quanto mi riguarda al momento comunque non avrei lavorato, dovendomi fermare dopo mesi di incessante attività. L'unico contraccolpo subito è stata la mancata promozione del nuovo disco con il mio gruppo musicale, le Bestierare. Per il resto, penso più a tanti colleghi che fanno teatro o sono coinvolti in piccole produzioni di grande valore, che hanno un problema sul quotidiano perché solitamente alternano questo lavoro ad altri per arrotondare, come il barista o il cameriere, e adesso si ritrovano senza né l’uno né l’altro. E il problema è che la nostra categoria non è riconosciuta legalmente ed è equiparata ad altre categorie con le quali, purtroppo, non abbiamo niente in comune, per cui le leggi fatte per loro alla fine per noi risultano inappropriate.