Sono due gli obiettivi di Felice chi è diverso: da una parte raccontare il mondo dell’omosessualità della seconda metà del novecento quello conosciuto dal suo autore, Gianni Amelio (che proprio finito questo documentario ha fatto coming out), dall’altra rendere conto della grande diversità e varietò che esiste all’interno di quelli che vengono definiti sbrigativamente “gay”. Lo dice direttamente la poesia di Sandro Penna da cui viene il titolo “Felice chi è diverso essendo egli diverso. Ma guai a chi è diverso essendo egli comune”, lo dicono alcuni dei 20 intervistati ma soprattutto lo dicono le immagini di questa ventina di signori omosessuali con idee, racconti, vissuti e modi di essere ciò che spesso preferiscono chiamare “froci”, diversi se non proprio opposti.
Il secondo dei due film italiani presenti alla Berlinale, passato in Panorama Dokumente, è un’opera davvero sorprendente su un argomento molto abusato. E non ci sono remore nell’usare per questo film un termine solitamente trito e svuotato di senso: “necessario”. Felice chi è diverso è un documentario "necessario" per chi non ha vissuto gli anni ricordati dalle testimonianze di questi ormai anziani omosessuali (si parte dalla fine del fascismo per arrivare fino ai ‘70), è una sorpresa scoprire la maniera in cui veniva trattato l’argomento dai media e dalla società nella ricostruzione quasi filologica di Amelio. Non si tratta solo della classica condanna che ci si aspetterebbe ma di una varietà di approcci, umiliazioni, canzonature se non proprio reportage investigativi distorti e feroci che oggi fanno indubbiamente ridere ma dei quali è evidente la gravità nel formare la mentalità di un paese (non che il nostro fosse un caso unico come raccontano anche gli stranieri).
Dunque, consapevole che oggi la situazione sia una fase di forti cambiamenti, Amelio ripercorre il passato per non dimenticarlo e non farlo dimenticare, ripassando attraverso testimonianze di nomi noti e meno noti racconti, aneddoti e la ricostruzione di una mentalità se non proprio di interi stili di vita cui erano costretti gli omosessuali fino solo 30 anni fa. Ma il vero merito di questo documentario è quello di lavorare non solo su un rimosso collettivo (spesso sono gli stessi intervistati che non hanno piacere a raccontare, ancora influenzati dall’aria dei tempi che hanno vissuto) quanto sulla parola, sui termini, convinto che da lì venga molto. Si parte dall’odio per l’aggettivo “gay”, di introduzione recente, colpevole di aver appiattito tutto, riducendo ogni forma d’omosessualità ad un’identificazione comune, fino ad arrivare all’esaltazione delle offese (“frocio”, “ricchione”, “invertito”) che se non altro, sostengono molti intervistati, hanno il pregio di cogliere l’eterogeneità umana.
Impagabile e giustamente posto in chiusura (subito prima dell’unica testimonianza di un ragazzo, che racconta come oggi viva in un clima di maggiore tolleranza) il segmento di Paolo Poli, fieramente checca, frivolo per autodefinizione e più affezionato ai tempi andati che alla modernità, quelli in cui l’omosessualità si consumava rapidamente, di nascosto, nell’ombra con un’esaltazione sessuale e un’eccitazione oggi scomparsa da un piattume simile al matrimonio (che lo fa rabbrividire). La più esaltante e vitale (vista anche la personalità di Poli) dimostrazione di una varietà di punti di vista e opinioni sconosciuta ai molti discorsi odierni sul tema.
In una Berlinale decisamente sottotono, poco interessante e priva di guizzi, questo documentario italiano (permeato da un’ironia raggiunta sia con le parole che un raffinato lavoro di montaggio) non solo non sfigura ma appare come uno dei film migliori visti fino ad ora, se non il migliore. Non essendo presentato in concorso non ci sono premi da poter auspicare se non il Teddy Bear che viene conferito ogni anno al miglior film del Festival le cui tematiche girino intorno all’universo LGBT (nel suo genere uno dei più importanti al mondo).