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Rivoluzione 007: James Bond ora è insicuro, fragile e pieno di problemi

In difficoltà, respinto alla prima sera ed eternamente innamorato, l’agente segreto di Daniel Craig, diviso tra Monica Bellucci e Lea Seydoux, in Spectre chiude la riscrittura del personaggio operata negli ultimi 4 film ed entra a far parte di una vera e propria rivoluzione.
A cura di Gabriele Niola
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Il Vodka Martini c’è, la Aston Martin (vecchia e nuova) c’è, la sequenza iniziale spettacolare c’è e anche lo smoking bianco c’è. La bond girl c’è, ma non è Monica Bellucci, che compare rapidamente, è semmai Lea Seydoux; e ovviamente fin dal titolo non manca la Spectre al gran completo, gatto bianco da accarezzare incluso. Sembra non manchi nulla per il lancio del 5 novembre 2015 e invece non c’è traccia proprio di lui, di James Bond. Eppure siamo arrivati al culmine dei 10 anni di Daniel Craig nei panni dell’agente segreto di Fleming, al quarto film di quella che è una mini serie, non diversa dai Batman di Christopher Nolan, ovvero 4 film dotati di storie indipendenti ma molto collegati tra di loro che rifondano il personaggio, dalle origini fino ad un “possibile” finale passando per l’introduzione di nemici e amici classici. E proprio quest’ultimo film, Spectre, somiglia ad una lettera d’amore alla mitologia di James Bond, ai suoi luoghi comuni e ai suoi vestiti, tutto guardato però da lontano, un mondo che conosciamo ma che non è più come prima. Ai fan Spectre potrebbe tranquillamente non piacere, perché benchè non manchi nessuno dei crismi, il tono è ormai definitivamente diverso: essere James Bond non è la cosa più desiderabile al mondo.

Chi andrà a vedere Spectre troverà quindi l’ultimo tassello del puzzle, dopo Skyfall che introduceva oltre al passato di Bond anche Miss Moneypenny, ora tocca alla grande organizzazione che in questa nuova versione di 007 è una multinazionale alimentata dal commercio di farmaci e intenzionata a controllare il mondo tramite l’informazione. La trama del film infatti riprende la chiusura di Quantum of Solace per andare ancora più a fondo e scoperchiare a Roma (nelle scene girate in Italia l’inverno scorso) la grande associazione criminale. Il suo scopo è terrorizzare i vari stati mondiali, tramite attentati terroristici condotti dai loro uomini visti in azione nei film precedenti (Javier Bardem, Mads Mikkelsen e Mathieu Amalric), con il fine di convincerli a firmare l’accordo per un programma di sorveglianza informatica intergovernativo e dar vita ad un ente che gestisca le informazioni di tutti i servizi di spionaggio, incluso quello di James Bond. L’ente chiaramente fa segretamente capo alla Spectre.

Se Casino Royale, l’atto di apertura di questo lungo reboot in 4 parti, suonava alle orecchie degli spettatori più appassionati come un film tradizionale, contaminato di diversi elementi da action moderno ma fondamentalmente puro, aiutato anche dall’essere tratto dall’unico libro originale mai passato al cinema, in quasi 10 anni gli sceneggiatori Neal Purvis e Robert Wade hanno preso quel personaggio che lì acquistava la licenza di uccidere e iniziava la propria carriera e gli hanno dato un’altra vita. Ne abbiamo visto fin da subito le problematiche, le indecisioni, gli errori e poi addirittura i sentimenti. Con Craig Bond è stato spinto là dove nessuno era mai voluto andare, nel terreno dell’intimo. Distrutto per la morte della sua prima bond-girl (Eva Green, alias Vesper Lynd) ancora in Spectre non può fare a meno di sospirare pensando a lei, reticente ad affrontare il proprio passato l’abbiamo seguito nella magione dei suoi genitori in Skyfall e addirittura in questo film lo vediamo nel suo appartamento di Londra, che non può che essere un luogo triste, vuoto e solitario.

Sembrano dettagli ma tutti insieme sono il segno che 007 non è più lo stesso di prima, anche se fa le stesse cose, non è più il mito intoccabile, l’uomo di cui sappiamo tutto ma non conosciamo niente, la figurina eroica incapace di tristezze e dolori almeno davanti agli spettatori. Che poi era il suo fascino: essere perfetto in tutto e per tutto, essere desiderabile. Con questa moderna serie è come se avessimo guardato dietro le quinte della sua vita, scoprendo quella complessità normale per qualsiasi essere umano ma un po’ fuori luogo per un mito come James Bond. Per diventare eroe moderno 007 ha dovuto acquistare una dimensione privata anche sullo schermo. Non l’avevamo mai visto realmente in difficoltà, non eravamo mai stati tristi per lui (se non nel finale di Al servizio segreto di sua maestà), non ci era mai apparso un po’ scemo o anche solo pietoso.

Tra Roma, Tangeri, l’Austria e poi ovviamente Londra l’agente con l’aiuto di tutti i personaggi, da Moneypenny ad M, dovrà combattere per la sopravvivenza stessa dei servizi segreti dalla minaccia della modernità meno ragionata, quella per l’appunto di un grande servizio informatico e di droni che devono sostituire gli agenti doppio 0. Bond protegge il vecchio regime contro l’avanzata del nuovo, ordina vodka Martini ma capita che gli diano un concentrato di verdure e addirittura non va a letto con la sua bond-girl alla prima sera perché lei lo respinge (per non dire del finale!). Sembra desiderare di essere il vecchio 007, quello di Connery, Moore e Brosnan senza riuscirci e dovendosi rassegnare ad essere un eroe moderno, poco fico e molto pieno di problemi.

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