Spike Lee e l’Italia in Miracolo a Sant’Anna
Spike Lee (regista dell'ottimo Inside Man) ha da sempre raccontato in modo più o meno esplicito la Storia, ricostruendo la sua America, ma anche analizzandone le attuali contraddizioni e le radici. Per la prima volta, il regista si avventura fuori dai confini patri e racconta i soldati di colore coinvolti dagli USA nella campagna di liberazione d’Italia, durante la seconda guerra mondiale, sottolineando come sempre lo strisciante razzismo dell’esercito. Ma il risultato è fiacco, inconcludente, viziato da non pochi errori. Hector Negron, impiegato postale prossimo alla pensione, nel mezzo di un turno di lavoro spara a un uomo. Perché? E che significato ha la statua che conserva in casa? Per scoprirlo bisogna tornare alla seconda guerra mondiale, quando la 92ª divisione Buffalo era in Italia, a contrastare i tedeschi e i repubblichini fascisti.
Scritto da James McBride e Francesco Bruni (sceneggiatore del Nastro d'argento La prima cosa bella di Virzì), un film di guerra e di denuncia civile che si serve di venature noir e scomoda la favola rurale. Il film si ricollega ai fronti aperti della storiografia americana, affrontando stavolta il tema del razzismo e dell’utilizzo dei soldati di colore all’interno di un esercito bianco e razzista: il film affronta molti temi e tratti tipici del cinema di Lee, dall’ironia verso gli afro-americani, lo sguardo rabbioso e pietoso verso il congenito razzismo di una civiltà, i dissidi e le sottili guerre civili che hanno sempre attraversato il nostro mondo, fino al ricorso a Dio come speranza comune.
Il vero difetto del film sta nella scelta dei toni e dei registri narrativi, perché a Lee pare interessare solamente il racconto popolare e la favola, ma risultando quasi sempre goffo e irrisolto nell’approfondimento storico e narrativo, tanto da rendere un dramma collettivo come un qualunque fatto privato; soprattutto perché quando si allontana dai suoi personaggi rasenta situazioni e atmosfera da fiera di paese, che non si conciliano con la drammaticità come il pessimo sottofinale in stile Fantasilandia. Una sceneggiatura stereotipata la cui adesione al romanzo affatica l’efficacia delle descrizioni belliche; Lee si avvale di una ricca messinscena e della sua esperienza come narratore, ma si brucia nell’inseguire i modi enfatici e sbagliati dello script. Le distanze che inficiano il film si possono così necessariamente trovare anche nella direzione degli attori: perfetti o quasi quelli americani, ridicoli e inadeguati gli italiani (eccetto il sempre epico Omero Antonutti e il sempre possente Pierfrancesco Favino, interprete di Cosa voglio di più di Soldini). Un passo falso, che se non va giudicato per le polemiche politiche, va sicuramente emendato per l’inadeguatezza con cui le racconta.
Emanuele Rauco