Nessuno nel mondo dello sport, probabilmente nemmeno Mohammed Alì, è stato raccontato quanto Diego Armando Maradona. Fare un film su Maradona oggi, per di più un documentario, è un progetto quasi impossibile se si vuole dire davvero qualcosa di originale per non abbracciare la retorica. Solo Asif Kapadia, allenatosi su figure discusse e iper-raccontate con i suoi bellissimi documentari precedenti, "Senna" (Ayrton Senna) e "Amy" (Amy Winehouse), poteva riuscirci e Cannes è il luogo perfetto per questo piccolo grande trionfo di cinema.
Diego Armando Maradona è un fuori concorso attesissimo (cioè non compete per nessun premio ma ha un posizionamento di tutto rispetto, lo stesso di Rocketman, per dire) ed è all’altezza di ogni speranza. Racconta Maradona a Napoli, si sbriga a mostrare come ci sia arrivato con un montaggio da urlo che va dal Boca all’arrivo a Napoli passando per il Barcellona e si sofferma sui 6 anni passati nella squadra che lo ha innalzato e distrutto, passando per i due campionati del mondo centrali della sua carriera, quello del Messico ‘86 e Italia ‘90. La tesi centrale è che esistano due personaggi: Diego, quello che è esistito fino al secondo anno al Napoli, e Maradona, il personaggio pubblico eccessivo e sfrontato, che lui stesso ha dovuto creare per resistere a quello che accadeva. E Maradona ha finito con schiacciare Diego.
Il regista Asif Kapadia è al 100% dalla parte di Maradona come in Amy era al 100% con Amy Winehouse, non nega gli aspetti peggiori e i problemi, ma lo assolve sempre. Anche le decisioni e le azioni peggiori diventano comprensibili in un clima complicato e difficile. E quando arrivano i primi segni di insofferenza e il desiderio di andarsene da quella città, il pubblico è con Diego. Addirittura Kapadia riesce a far dire a Ferlaino (in un’intervista fatta per il film) “Io ero diventato il carceriere di Diego”. Napoli era una galera per lui, ci sono video con i boss della camorra inediti ed è reso benissimo il meccanismo di dipendenza da essi. Maradona aveva bisogno di protezione e loro lo tenevano al guinzaglio con la droga. I responsabili del disastro per questo film sono chiari: sono prima i media e poi Napoli, un clima impossibile per chiunque.
Le immagini sono tutte rigorosamente d’epoca, materiale d’archivio in alcuni casi incredibile. C’è quel che si conosce da angolature mai viste al pari di ciò che non si era mai visto o sentito. L’audio di interviste fatte oggi indirizza il racconto ma è il lavoro di montaggio delle immagini, tra cui tantissimi gol e azioni in campo, a fare il grosso e spiegare chi era e come ragionava Maradona. Non è una novità il fatto che esattamente quel che lo aveva reso un Dio è anche ciò che l’ha distrutto come uomo e giocatore, ma questa è la prima volta che in una ricostruzione completa e lunga si ha la sensazione tangibile di quale inferno dovesse essere per lui, da un certo punto in poi, vivere a Napoli.
Così quando, al culmine del rapporto di amore e odio, si arriva ad Italia ‘90, con tutti gli scandali, la droga, il peso fisico e non solo, la fatica e la sofferenza accumulata da un Maradona ingrassato e compare l’immagine del San Paolo dall’alto con la scritta “Italia – Argentina SEMIFINALE Stadio San Paolo di Napoli” anche il pubblico internazionale del festival di Cannes è esploso in una risata nervosa. Il documentario è così ben narrato, chiaro e organizzato che a quel punto non ha bisogno di spiegare che decisione incredibile e assurda fu quella. Lo dirà, sconfortata, la voce di Ciro Ferrara fuoricampo e come si trattasse di una miccia accesa. Questo è il miglior cinema possibile, non quello che pretende oggettività e si limita a fornire informazioni, bensì quello che usa le immagini per mostrare un punto di vista che scateni nel pubblico domande, questioni e dubbi.
In un vero trionfo di cinema che fa sembrare i soliti documentari prodotti amatoriali, vediamo l’Italia degli anni ‘80 dagli occhi di un regista straniero: il Napoli che non vince mai assieme all’odio per i meridionali, gli striscioni di insulti esposti ovunque, i cori ben noti e in quel momento la voce di Maradona, oggi, che dice: “Io solo ad un certo punto ho capito di essere finito in un posto la cui gente è considerata dal resto d’Italia come meno di niente”. Tutto ciò però ha un prezzo. Il regista indirizza il discorso dove vuole lui, avvalendosi sì delle immagini di repertorio, ma segnando la storia di Maradona con un tiro secco alla Asif Kapadia, da una prospettiva accattivante e interessante, seppur sempre inevitabilmente parziale.